POLLINI Questa Italia uccide la musica

Incontro con il grande pianista, alla vigilia di Salisburgo: «Ha ragione Muti, c'è coerenza soltanto nel distruggere le orchestre» Incontro con il grande pianista, alla vigilia di Salisburgo: «Ha ragione Muti, c'è coerenza soltanto nel distruggere le orchestre» POLLINI Questa Mia uccia la musica .ri MILANO N giornalista inglese è anI dato a trovarlo in un alberI I go di Londra. Sono rimasti %J I insieme un'ora, poi The Times ha scritto: magnifico pianista, anzi «an enigma with fingere», un enigma fornito di dita. L'enigma sorride, mostrando il ritaglio: «Davvero dò questa impressione, so comunicare così poco?». Maurizio Pollini, 53 anni a gennaio, è appena tornato da una serie di concerti in Inghilterra, Germania, da un lungo soggiorno in Giappone, dove si è esibito come solista e assieme a Pierre Boulez nel festival che Tokyo ha dedicato al compositore francese. Sale esaurite, un'esperienza entusiasmante: «Un esempio straordinario di rinnovamento della vita musicale, per la scelta dei programmi (30 lavori diversi, tutti del '900), il rigore e la passione di Boulez, assolutamente contagiosi». Ora ha bisogno di studiare per i prossimi impegni importanti, primo fra tutti, ad agosto, il Festival di Salisburgo, dove ha assunto anche responsabilità nella programmazione artistica e dove si esibirà con un vecchio amico come Salvatore Accardo. Da tempo Pollini seleziona gli inviti e accetta di suonare in pubblico non più di 40 sere l'anno. Dopo l'esperienza della Donna del lago al Festival Rossini di Pesaro, ha abbandonato l'idea di diventare anche direttore: «Non c'è tempo, il pianoforte è troppo esigente, la doppia attività non è possibile e, suonando meno, allargo il repertorio e scopro opere nuove». Con un autore classico come Chopin nel 1960 - aveva 18 anni Pollini vinse il Concorso di Varsavia. Una decina d'anni dopo aveva già una tale autorità da imporre al pubblico italiano l'opera completa di un maestro del '900, Schònberg. «Fatta salva la diversità dei momenti storici - afferma - tra Chopin e Schònberg non esiste alcuna differenza nell'attitudine: la musica contemporanea è il proseguimento della grande musica dell'800. Per la comprensione degli aspetti emotivi non ci sono e non ci devono essere rigide separazioni. Sicuramente per me non ci sono. E' un'impressione superficiale del pubblico, dovuta a un'abitudine verso un certo tipo di musica che vorrebbe a tutti i costi, sempre, ritrovare». Poi sono venute le interpretazioni di Boulez, di Nono, delle sonate di Salvatore Sciarrino. Lei ha sempre preferito i musicisti esploratori, quelli che schiudono al suo strumento nuove possibilità. Non ama i nostalgici del passato? «Se si riferisce ai neoromantici, credo che con loro arriviamo a risultati che fanno pensare alla rinuncia della musica a esistere, a prendere una posizione. Ne penso tutto il male possibile. Quelle opere non hanno alcun interesse». Un suo rimpianto, un autore che non ha ancora eseguito? «Domenico Scarlatti. E' meraviglioso, ma non ci riesco, non so dire perché. Qualcosa mi separa dalla sua musica. In compenso, lo suona benissimo mio figlio». Come si formano, come si mutano i gusti del pubblico? «Quello che può formare il gusto del pubblico è un'attività costante, uno sforzo congiunto di musicisti, organizzatori, critici. In Italia c'è poco coraggio». Organizzatori troppo prudenti? «Credo di sì. Però c'è una bella notizia: dopo dodici anni di purgatorio, Giorgio Balmas, ideatore di Settembre Musica, è diventato direttore artistico del Lingotto a Torino. Se avrà mano libera, potrà fare molto bene». E i critici? «Parlano troppo spesso dell'interpretazione: A è meglio di B che è peggio di C. A mio modesto avviso, li ritengo poco propositivi anche in prospettiva di uno svecchiamento delle abitudini: prevalgono le stesse osservazioni, i soliti appuntamenti». Perché si è dedicato poco all'insegnamento? «Qualche seminario l'ho fatto, alla Scuola di Fiesole e l'anno prossimo andrò all'Accademia di Imola. Mi fa paura la responsabilità di seguire un ragazzo costantemente, decidere del suo sviluppo musicale». Come fa un giovane pianista ogni anno in Italia se ne diplomano duemila - a capire se ha talento? «Bisogna cercare di essere chiari su questo punto: non illudere nessuno. Esiste il mito del pianoforte, il sogno della carriera, ma certo anche la realtà di una letteratura pianistica meravigliosa». Lei, da ragazzo, ha avuto qualche dubbio? «Mai. Non ho mai suonato nient'altro che il pianoforte. Un amore mai tradito». Al tempo dell'adolescenza, quali le scoperte più emozionanti? «La scuola viennese del '900, Mitropoulos che venne alla Scala a dirigere il Wozzeck di Berg. Ricordo il suono di Arthur Rubinstein nel Secondo Concerto di Chopin: nelle parti cantabili era un'autentica ri- velazione. Chopin scriveva con un senso assolutamente magico dello strumento, realizzarlo è affascinante, per un pianista. E ricordo Michelangeli, quando suonava in Italia. Poi, per me, ha continuato a esistere nei dischi». Riccardo Muti, dopo le turbolenze alla Scala, ha detto che questo Paese, al di là delle parole, ama poco la musica. «Infatti, si sono cliiuse le tre orchestre della Rai. Le orchestre vanno difese, come un parco: sono valori culturali e ambientali. Si distruggono le coste, non si salvaguarda Venezia, si chiudono le orchestre. C'è coerenza in questo, se non lo si capisce è gravissimo. E non si cura abbastanza l'educazione musicale. A Londra sono attive otto orchestre, a Berlino nove: a Roma e a Milano due. Però, impazziamo per i cosiddetti eventi». Nostalgia della normalità? «La musica vive sulla continuità, non sugli eventi: se rimanessero solo gb eventi sarebbe un suicidio. Hanno senso se servono da introduzione a un'attività costante». Facciamo un salto indietro, maestro. Milano, sala del Conservatorio, era il 1972. Lei, di fronte al pubblico, protestò contro i bombardamenti americani sul Nord Vietnam. Successe il finimondo. «Lo rifarei. Sento, interiormente, di non essere cambiato per nulla. Ero vicino a un ideale di socialismo democratico che conservasse le libertà: un'utopia, forse, allora come oggi. Ma certo oggi dovrebbe esserci un risveglio delle coscienze sui temi drammatici che vanno al di là delle ideologie: l'aumento della popolazione mondiale, le diversità intollerabili nelle condizioni di vita tra gli abitanti del pianeta, il dramma ecologico. Ma l'Europa si è rinchiusa, rinunciando a contare, a prendere posizione. Fa politica nel senso più ristretto del termine». Due anni fa, mentre stava esplodendo Tangentopoli, e con massimo risalto nella sua città, lei pensò anche di andarsene: si sentiva offeso nella sua dignità di cittadino, di milanese. «Nemmeno ora c'è da rallegrarsi, speriamo che si trovi una strada per uscire dalla decadenza della coscienza collettiva. Negli altri Paesi europei le istituzioni sembrano più sobde, la democrazia più sicura. L'Itaha pare talvolta un Paese che si può comprare con poco. C'è chi ha pensato di impadroiursi dell'Italia come se fosse merce di infima quahtà. E' irritante». Cosa suonerà a Salisburgo? «Schubert e Schònberg, Brahms e Sciarrino, Monteverdi e Nono. Ho immaginato, assieme a Gerard Mortier e Hans Landesmann, dei programmi non convenzionab, delle pagine poco eseguite o addirittura dimenticate. Diceva Adorno che perfino la Quarta Sinfonia di Beethoven è diventata una rarità. Mortier, direttore del Festival di Salisburgo, ha dimostrato quanto sia indispensabile una svolta nella programmazione: e non ha perso il suo pubblico).. Quasi i tre quarti del pubblico italiano della musica colta è compreso tra i 40 e i 70 anni... «E' terribile. E' indispensabile un'azione nelle università, nei luoghi dove vanno abitualmente i giovani. Bisogna immaginare di più». E' guarito dalla sinovite alla mano sinistra? «Il problema si è risolto perfettamente, ma è stato seccante. Un pianista è condizionato dalle mani e se ne accorge quando non le può utilizzare appieno. E' brutto, molto brutto». Si sente padrone delle sue scelte o le case discografiche la condizionano? «Assolutamente Ubero». Progetti imminenti? «L'incisione delle 32 Sonate di Beethoven. Poi i Concerti di Brahms, che sto registrando a Berlino con Claudio Abbado». Siete ancora amici? «Come sempre. Lavoreremo assieme anche a Vienna e New York». E in Italia? «No, per il momento non in Italia». Ma perché suo figlio suona proprio Scarlatti? «Dev'essere un enigma». Sandro Cappelletto «1critici parlano troppo delle interpretazioni non contribuiscono a svecchiare le abitudini» «Performare il gusto del pubblico occorre uno sforzo congiunto. Qui c'è poco coraggio» «Pochi giovani ai concerti: bisogna andare nelle università, immaginare di più» «Aspetto un risveglio delle coscienze sui temi drammatici di oggi: ma l'Europa si è rinchiusa» Nella foto grande Maurilio Posopra Claudio Abbado e Gera Nella foto grande Maurilio Pollini, a lato Pierre Boulez, sopra Claudio Abbado e Gerard Mortier. In basso Beethoven