Alla banchina di Spalato dove sbarcano i mujaheddin di Giuseppe Zaccaria

Cinque vittime (due bambini) nella capitale bosniaca, Mladic: voglio garanzie sui raid Alla banchina di Spalato dove sbanano i mujaheddin DA PROFUGHI A GUERRIGLIERI SPALATO DAL NOSTRO INVIATO Ritornano. Sembra incredibile, ma proprio mentre su Sarajevo si intensifica il massacro, l'Europa continua ad ammassare truppe, le milizie serbe a giocare col fuoco, migliaia di bosniaci tornano dall'estero per farsi ricondurre verso casa. Arrivano in piccoli gruppi, a Ploce o Spalato, i due porti più meridionali della Dalmazia. Trovano autobus che li aspettano alle banchine, gente che li assiste con particolare sollecitudine, li rifocilla, offre regali ai bambini. Poi salgono su pullmann che immediatamente partono scortati dalla polizia croata, e li conducono fino a Gorny Vakuf, Zenica, e Kiseljak. Sta accadendo qualcosa di incomprensibile, nella Bosnia di queste convulse settimane: colonne di profughi marciano contro la storia, nella direzione opposta a quella dei profughi di tutte le guerre. Non fuggono lontano, o meglio l'avevano fatto due o tre anni fa: adesso invece marciano allegri verso la bocca del vulcano. Tutti borbottano la medesima spiegazione: «Vogliamo tornare nella nostra patria». Quacuno rivela un impegno più pressante: «Sono qui per rispondere alla mobilitazione generale». Ma dietro questo esodo rovesciato ci sono anche elementi più significativi: un'accorta regìa del «Refah», il partito fondamentalista turco, ed un torrente di danaro che comincia a giungere dall'Arabia Saudita. Vi è mai accaduto di scoprire qualcosa solo perché un dettaglio vi ha colpito, perché in una foto, un quadro, un panorama c'era qualcosa che stonava e vi ha spin- to ad approfondire? Bene: l'altra sera a Spalato, sotto i fanali che illuminavano il porto, tutto sarebbe parso normale non fosse stato per la sagoma che si stagliava contro l'ultimo rosseggiare del tramonto. Una figura che lì appariva incongrua, sbagliata: una lunga tunica bianca sormontata da un turbante bianco che inquadrava un viso scuro e corrucciato. Il dottor Ahkram Tamim, inviato speciale della famiglia reale saudita, era a Spalato per aspettare l'arrivo di una nave. E quella nave, una nave italiana, è giunta verso le ventuno. Da Durazzo, il traghetto «Espresso Venezia» portava un carico speciale: 726 musulmani di Bosnia, che rientravano dopo un esilio di tre anni. C'erano molte persone anziane, sulla nave, molti bambini: ma anche 149 giovanotti in età di servizio militare. In Bosnia, soprattutto adesso, chiunque abbia dai sedici ai sessant'anni deve impugnare il kalashnikov e andare in trincea. Per tornare, non è il momento peggiore? Ifet Zejnovic, un giovanotto sulla trentina inagrissimo e deciso, ha detto che parlava per conto di tutti gli altri: «Io vengo da Cajnic, un villaggio a Sud della Bosnia. Quasi tutti gli altri abitava¬ no nei dintorni di Sarajevo, ed erano scappati coi primi bombardamenti serbi. Abbiamo attraversato l'intera regione, quasi tutti a piedi. Una fuga che è durata sette mesi. Siamo arrivati in Macedonia, e lì abbiamo trovato asilo. Dico asilo, non aiuto. Infine, dalla Macedonia ci siamo spostati in Albania. E fino ad oggi, in qualsiasi baracca ci trovassimo, a darci una mano sono stati solo i fratelli del "Merhamet"...». Il «Merhamet» è l'organizzazione musulmana di solidarietà, una «Charitas» con la mezzaluna. Ma da qualche tempo, fra i profughi della Bosnia è particolarmente attivo anche un altro gruppo: «El Halil», organizzazione turca che è diretta emanazione del «Refah». «Sì, sono stati loro a proporci di tornare, ad organizzare e finanziare il rientro». Altri ragazzi accennavano a lunghe riunioni che hanno preceduto il viaggio, a racconti di «professori» su quanto stava accadendo in Bosnia, sull'importanza dei volontari a Sarajevo e nelle altre «enclave», sul valore dei «mujaheddin». Ecco una storia che ciclicamente riemerge dalle devastazioni bosniache: quella dei sei, forse settemila volontari (iraniani, in massima parte, ma anche giordani e sauditi) che da professionisti della guerra continuano a impastare valore, sanguinarietà e radicalismo religioso. Forse ricorderete una foto agghiacciante: quella di un «mujaheddin» che un paio d'anni fa teneva sorridente in mano la testa di un serbo di Bosnia, appena decapitato. Di quei «mujaheddin» si è tornato a parlare poche settimane fa. A Zenica, in un momento di pausa dei combattimenti, avevano organizzato una partita di calcio, invitando tutte le famiglie ad andarla a vedere. All'uscita dallo stadie c'era una fila di camion e tutti gli uomini validi avevano dovuto salirvi, precettati per la prima linea. Quelli che adesso scendono in fretta dall'«Espresso Venezia» e salgono sugli autobus diretti a Gorny Vakuf non sono precettati, ma indottrinati probabilmente sì. «Siamo alla vigilia della nostra più grande offensiva: combatteremo coi nostri fratelli e rientre¬ remo a Sarajevo con le nostre armi. L'Europa, la Nato? Abbiamo imparato a farne a meno». Per discorsi più approfonditi non c'è tempo: Mehmed Pecikoz, l'organizzatore del trasporto, sospinge tutti a bordo e dà il segnale di partenza. Poche ore dopo, un operatore turistico ci ha spiegato che solo nell'ultima settimana da Spalato hanno transitato più di tremila bosniaci che rientravano dalla Germania, dal Belgio, dalla Turchia. Tutti diretti a Gornj Vakuf, e poi nelle altre città di prima linea. Nella Jugoslavia comunista c'era un'organizzazione, la «Dalmacjia Turist», che era ridotta al lumicino ma da qualche settimana comincia a ricevere ossigeno, sotto forma di ordinativi di «El Halil». La fratellanza islamica continua a prenotare migliaia di biglietti aerei e navali (in un paio di settimane dovrebbero arrivare a 10 mila). Li pagano i sauditi. I fondi paiono molto nutriti. Solo in Turchia, l'anno scorso, il «Refah» in una raccolta di fondi per i fratelli bosniaci era riuscito a mettere assieme più di sedici milioni di dollari. Quei fondi si stanno unendo ai finanziamenti di tutti gli altri Paesi islamici per assistere e riarmare la nazione assediata. Di quest'attività di assistenza e indottrinamento si erano avuti sentori, ma non era ancora accaduto che i musulmani di Bosnia, per quanto reislamizzati, cominciassero a rientrare. Comincia a succedere adesso, mentre intorno Goradze l'esercito di Sarajevo è all'attacco, ed altre avanzate sono in previsione. Chissà che non sia l'annuncio di una svolta. Giuseppe Zaccaria Dietro all'operazione, i soldi di Riad e degli islamici turchi Migliaia di giovani bosniaci stanno tornando per combattere A sinistra un soldato inglese ferito dai serbi mentre arriva all'aeroporto di Zagabria Qui accanto un uomo colpito da un cecchino a Sarajevo

Persone citate: Ahkram Tamim, Halil, Mehmed Pecikoz