La gaffe dell'Europa ipocrita di Enzo Bettiza

La gaffe dell'Europa ipocrita polemica. Bettiza contro il film premiato a Cannes La gaffe dell'Europa ipocrita Kusturica, Palma d'oro al tradimento NHON ci sarebbe quasi più nulla da aggiungere sulla trappola propagandistica del film Underground di I Emir Kusturica (pronuncia italiana esatta: Cùsturiza), dopo quello che hanno scritto Alain Finkielkraut, ebreo francese che di genocidi se ne intende, su La Stampa, e Zlatko Dizdarevic, il cronista che da quattro anni ci racconta la tragedia bosniaca dalle pagine dell'eroico quotidiano Oslobodjenje di Sarajevo. Nulla, se non una considerazione politica essenziale: che la Palma d'oro assegnata a Kusturica a Cannes, fra le inebriate lodi della giuria e della critica, è stata la cartina di tornasole che ci ha fatto comprendere più a fondo perché l'Europa occidentale non si è mai schierata con chiarezza, nelle guerre di Croazia e di Bosnia, a fianco delle vittime aggredite. Posta di colpo davanti al dramma della terza guerra continentale, l'Europa ha continuato a prendere volutamente fischi per fiaschi, rifugiandosi nelle geremiadi dell'umanitarismo privo di reale discernimento umano e consolandosi con l'ipocrita constatazione della propria ignoranza nelle «complicate vicende balcaniche». Il modo con cui una certa Europa superficialmente colta, evoluta, imparziale e sensibile, ha lanciato l'applauso all'ambiguissima opera di Kusturica, dimostra che essa non ha capito nulla delle vere intenzioni dell'autore che l'ha concepita e realizzata. La corriva giuria di Cannes ha lasciato intendere di aver premiato un film sulla tragedia della Bosnia, creato da un geniale regista bosniaco, sullo sfondo di mezzo secolo di storia jugoslava. In realtà ha premiato un film serbo, finanziato dal governo serbo, girato in Serbia, ideato per di più da un musulmano che si è messo al servizio dei serbi e ha abbandonato tutti i suoi ex amici di Sarajevo. E' stata così premiata non un'opera di dolore e di riflessione sui martirio della Bosnia, bensì l'ottica politica che della Bosnia hanno coloro che bombardano Sarajevo, che fanno il tiro al piccione sui passanti di Sarajevo, che «ripuliscono» etnicamente le zone occupate, che riducono l'antagonista a scheletro vivente nei lager Io personalmente non ho veduto il film. Ma ne ho saputo abbastanza dalle recensioni, dai racconti di coloro che l'hanno visto, nonché dalle conferenze stampa dello stesso autore, per poter concludere che Kusturica è una specie di gemello estetico del quisling bosniaco Fikrit Abdic che combatte a fianco dei serbi contro i bosniaci nella sacca di Bihac. Mi si potrà ribattere allora: ma il talento, il grandissimo talento artistico di Kusturica, è incontestabile. Certo che lo è. Ho assistito alla proiezione di altri suoi film, quelli che lui sceneggiava ai tavolini del defunto caffè Setaliste di Sarajevo, aiutato dall'amico Zlatko Dizdarevic e dal poeta bosmaco Abdulah Sidran. Erano opere segnate dal marchio di un talento originale, e beffardo. Ma il talento, quando si mette al servizio della propaganda politica, non è un'attenuante. E' un'aggravante. Anche la cineasta nazista Leni Riefensthal aveva molto talento. Era ritenuta, perfino dagli avversari, quasi un genio. Il suo famoso documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936 è considerato ancora oggi, nel suo genere, un ca- polavoro d'arte e di tecnica del cinema in bianco e nero; eppure quell'opera fu e resta la maggiore glorificazione per immagini mobili della figura criminale di Hitler e della mistica nazionalsocialista. Il talento che potenzia l'impatto sulle masse della demagogia, della falsificazione, della menzogna ben filtrata e manipolata dai trucchi cinematografici, è ancora degno d'essere chiamato talento? Oppure è soltanto uno strumento di mercimonio raffinato con cui dare un tocco più penetrante ad una volgare operazione d'ipnosi di massa? La riuscita estetica di un'opera fondata su una falsa premessa mo¬ rale non basta a redimerla dal sopruso ipnotico e dalla volgarità di fondo. Raccontare bugie con belle immagini è un'azione che sa più di zolfo che d'incenso. Mi è stato riferito che ad un certo punto, nel film di Kusturica, appare sullo schermo la maschera disperata di una donna che urla al marito: «Jao, Jovane, unistise nam kucu!», «Ahimè, Jovan, ci hanno distrutto la casa!». Siamo agli inizi della guerra; Jovan, che al vocativo diventa Jovane, è un tipico nome maschile serbo. Ebbene, in quell'epoca d'avvio dell'aggressione serba, nel 1991, le case crollavano soltanto sulle teste dei croati, come poco più tardi croi- leranno soltanto su quelle dei musulmani bosniaci. La verità è che Kusturica, nato a Sarajevo, non si considera più né musulmano né bosniaco, ma fanaticamente serbo. «Io amo i serbi», dichiarava a un giornale belgradese nei giorni in cui la sua città natale subiva uno dei bombardamenti più feroci. Gli ex amici di Sarajevo gli hanno voltato tutti le spalle: non lo riconoscono più come uno dei loro. Dice Dizdarevic: «Ogni volta che Emir torna nell'ex Jugoslavia, il suo viaggio, i suoi discorsi e i suoi affari terminano a Belgrado». Colui che fu suo intimo amico e sceneggiatore dei suoi film, Abdulah Sidran, il Kavafis di Sarajevo, lo definisce ormai un «traditore». Anche la nostalgia di «Kusta» per la vecchia Jugoslavia non appare altro che un alibi. E' nel nome dell'unità che i serbi hanno smembrato la Jugoslavia aggredendo Kossovo, Vojvodina, Slovenia, Croazia, Bosnia e assoggettando perfino, col mito della consanguineità di razza e di religione, il fratemo Montenegro. Enzo Bettiza im f Film d'un islamico bosniaco al servizio dei serbi Una trappola propagandistica: nessuno l'ha capito f Qui accanto il regista bosniaco musulmano Emir Kusturica Sopra, il filosofo Alain Finkielkraut A sinistra, un'immagine di guerra in Bosnia