«Addio scuola meglio il lavoro» Como e Brescia guidano la fuga di Cesare Martinetti

«Addio scuola, meglio il lavoro» Como e Brescia guidano la fuga «Addio scuola, meglio il lavoro» Como e Brescia guidano la fuga TRAI COMO DAL NOSTRO INVIATO Per primi se ne sono andati Aloi e Pirovano. Venivano dai dintorni di Lecco. Da un giorno all'altro sono scomparsi, senza dire una parola. Poi via via gli altri. Adesso che mancano pochi giorni alla fine della scuola il professor Giampiero Testa, insegnante di italiano al Ripamonti di Como, sta tirando le somme di un anno «faticoso come non ne ricordo un altro: otto ragazzi stesi sulla strada prima della fine». Nella sua classe da ventiquattro sono rimasti in sedici. La battaglia degli scrutini si annuncia difficile e come ogni battaglia farà altre vittime. Come accade, professore? «Quasi sempre allo stesso modo. Uno comincia a stare a casa perché ha trovato un lavoretto. Passa qualche giorno o qualche settimana e via via scompaiono anche gli altri. In genere si tratta degli amici, gruppetti che vengono dalla stessa scuola media, piccole bande di coetanei che si attraggono fra loro in una spirale inarrestabile. Il primo che lavora ha soldi in tasca, può comprarsi il motorino e quindi farsi la ragazzina e andare in discoteca il sabato...» Dunque lasciano la scuola per andare a lavorare. Famiglie povere? «No, famiglie che come i loro figli fanno un conto utilitaristico: per loro la scuola è un investimento. Se non ci vedono l'utile, o se appare più alto l'utile del lavoro subito, se ne vanno». L'ultimo rapporto Censis dice che a Como e Brescia, due capitali del profondo Nord ricco e benestante, c'è il più basso «tasso di scolarità» d'Italia nella scuola media superiore: frequentano la scuola solo 59 ragazzi su cento. Per arrivare a questi livelli bisogna inabissarsi nelle province del Sud più povero: Ragusa (58 per cento), Calta- rassetta (57), Catanzaro (59). Ed è un dato che non ha niente a che vedere con quell'altro indicatore statistico che si chiama «disagio socioeducativo», ai minimi sia a Como che a Brescia. Questa è un'altra storia che i sociologi del Censis catalogano così: «Impoverimento delle risorse umane dovuto all'alta propensione verso il lavoro». Giovanni Moretti, segretario della Cgil di Como, si sta girando tra le mani gli ultimi dati arrivati dall'Osservatorio del lavoro. li si legge che su oltre 5 mila studenti che hanno cominciato le superiori, nell'ultimo quinquennio analizzato ne sono arrivati alla fine poco più di 3 mila. Come dice il Censis. «Proprio stamattina - racconta Moretti - in un'assemblea di fabbrica sulle pensioni ho incontrato un operaio di 15 anni e gli ho chiesto perché non andava più a scuola. Risposta: non mi va di studiare, preferisco lavorare». Semplice. Da queste parti l'impresa è diffusa, nelle forme e nelle dimensioni più diverse, trovare lavoro è facile, nella bottega del pa¬ dre o in quella del vicino, ad orario pieno, part-time, serale, notturno, nel week-end, come vi pare, in «nero» o regolare. Il vicino di casa di Moretti, per esempio, ripara frigoriferi e non appena il figlio ha avuto 15 anni s'è messo a lavorare col padre. A cosa gli serve la scuola? Vivono benissimo e girano in Audi. «Il fenomeno - dice il sindacalista - ha un aspetto positivo nel breve periodo: dà autonomia finanziaria alla famiglia e consente all'impresa di trovare forza lavoro con flessibilità e rapidità». E l'aspetto negativo? «E' molto più forte soprattutto nel medio periodo dove tutto ciò può risolversi in un disastro per gli individui e per le imprese. Le conseguenze non sono misurabili, ora, ma già sappiamo che finito questo periodo di ripresa drogata dalla svalutazione della lira, occorrerà cultura produttiva per recuperare lo svantaggio che abbiamo nei confronti degli stranieri su prodotti e qualità. Che futuro aspetta questi giovani lavoratori così poco qualificati?» Il Ripamonti, istituto professio¬ nale, è una bella scuola, pulita, piena di luce e di laboratori, ha alle spalle una grande tradizione nella fornitura di diplomati alle aziende. Il preside Nicotra è simpatico, ha il foulard al collo da dandy, ma si rende conto che bisogna correggere la rotta rispetto alla miniriforma dei professionali che ha fatto iniezioni di italiano-matematica-lingua straniera appesantendo la vita scolastica di ragazzi che cercano soprattutto la chiave di ingresso nel circuito del lavoro: «Si privilegia la teoria più che il "fare"; dobbiamo invece riportare al centro della nostra pedagogia il lavoro». Che sia difficile insegnare italiano, lo testimonia il professor Testa, vecchio navigatore di scuole e di gioventù, che con dolcezza confessa: «Questi ragazzi sono semianalfabeti, guardano con sospetto i libri, hanno difficoltà con la lingua, all'esterno sono bombardati da sollecitazioni di consumo e dalla scuola ricevono un messaggio contraddittorio: da un lato cerchiamo di rasserenarli, dall'altra li terrorizziamo dicendogli che devono in¬ filarsi un po' di cultura in testa altrimenti non ce la faranno perché il mondo cambia e loro devono essere pronti ad affrontare l'imprevedibile. E' finita l'epoca dei mestieri facili e sempre uguali». Difficile. L'anno scorso li hanno portati in gita a Pisa e quando sono stati in piazza dei Miracoli molti di loro non hanno nemmeno voluto scendere dal pullman per guardarsi intorno. Confessa Testa: «Se penso ai "dispersi" di quest'anno, credo che molti se ne siano andati soltanto perché veniva chiesto loro il rispetto di regole elementari: venire a scuola tutti i giorni, portare i libri, non uscire in continuazione dalla classe...» Nei temi non si confessano e «forse ne avrebbero bisogno». Com'è vicino il Ripamonti a «La scuola» del film di Lucchetti, quando il professor Testa incontra nell'atrio un suo ex allievo arruolatosi in polizia: «Mautonc, ti mangi ancora le unghie?», e giù una risata per cancellare insieme il ricordo di quella reciproca paura in classe: «Era uno che diceva "non ce la faccio", ma poi ha tenuto duro». Bravo Mautone. In provveditorato la professoressa Pelonara, addetta ad elaborare e guidare il primo progetto contro la «dispersione scolastica» non è pessimista: «Questa è una zona dove il disagio è basso, non c'è nessun problema nella scuola dell'obbligo, né ai licei». La realtà è che la metà dei ragazzi, dopo la media inferiore si iscrive a corsi professionali già prefigurandosi un lavoro prima possibile. La metà di quelli che vanno negli istituti tecnici e professionali, lascia prima della fine. Dice la signora Pelonara: «Tra i molti problemi c'è quello di motivare e preparare gli insegnanti del biennio. Però stiamo risalendo la china». Ma la prossima generazione sarà meno scolarizzata del passato? «No». In quella gigantesca cittadella alla periferia di Como che si chiama «Magistri comacini» (Istituto tecnico con mille e 500 allievi da tutta la provincia) il professor Fernando Impellizzieri, matematico, fa anche lui i suoi conti che tornano con ossessiva regolarità: il 50 per cento degli iscritti ha difficoltà a supera re i primi due anni. Che fine fanno? «Si disperdono, ed è questo il vero grande problema della nostra scuola. Superati i due anni, poi, tutto va bene. I ragazzi sono motivati, concreti, sensibili. Le nuove tecnologie hanno aiutato molto la scuola. Ma è quella metà che si disperde a fare effetto, soprattutto se si pensa che in Germania il cento per cento dei giovani si diploma». E già, c'è qualcosa che non va, qui a Como, Svizzera del Sud. Cesare Martinetti Nel «profondo Nord» su cinquemila studenti solo poco più di 3 mila arrivano al diploma Una scena del film «La scuola» e II ministro Giancarlo Lombardi