Campana rossa per sole nero

Originale omaggio a Mainolfi Originale omaggio a Mainolfi Campana rossa per sole nero f*\ TORINO 4 > INQUE anni fa, su questo I giornale, l'immagine a I i sette colonne del Sole ne^Iro di Mainolfi simboleggiava l'apertura della XLII Biennale di Venezia. Con la violenza michelangiolesca della sfera e dei pali neri appena sgrezzati, occhio simbolico di una divinità oscura, quell'opera unica nello spazio concesso allo scultore coinvolgeva nel profondo l'osservatore e proclamava la presa di potere su una generazione italiana di scultori assieme a Spagnulo e a Mattiacci. Oggi e fino al 23 luglio l'impatto è altrettanto forte nel vasto e nudo spazio del salone centrale della Palazzina della Promotrice, che ancora una volta si rivela una delle più funzionali strutture espositive a livello nazionale, perché l'opera è posta a confronto e a colloquio con altre clamorose tappe lungo 25 anni. II gran gesso, pigmentato di rosso fuoco, della Campana del 1979, degna del Rublev, esplosione di un'ossessione scultorea senza fine secondo le parole stesse dell'autore, è una storia spiralica continua del pensiero plastico, dall'età mitica dei centauri allo stiacciato di Donatello. A parete, i 365 pannelli in terracotta di Cittador del 1991 ripropongono ossessivamente il doppio mito arcaico, nato con i Tufi subito dopo la Campana, della città rupestre e della storia/ scrittura sigillata delle prime civiltà mesopotamiche; ma nello stesso tempo, con quella procedura di sintesi metamorfica e sincretistica in cui risiede l'essenza del fascino profondo e ambiguo, inimitabile, di Mainolfi, le formelle evocano sia i primi piani ripetitivi di un telespettacolo dello sbarco sulla Luna sia le superfici pulsanti di frammenti corporei. Il carattere unico della sua opera, così come della personalità esplosivamente fisica di Mainolfi, consiste in effetti in un continuo scambio fra due forze endogene. Da un lato emerge la capacità intellettiva di creare e padroneggiare mito e sogno, di gestire una immersione non intellettualistica e profonda nell'antropologia delle proprie radici mediterranee e una presenza prepotente nell'oggi dell'arte concettuale e delle strutture ambientali. Dall'altro ogni opera e gruppo di opere registra il trionfo espressivo dell'antichissima manualità fisica del confronto semplice, diretto, sensuale con la materia naturale, la terra, il legno, il metallo dominato dal fuoco. E' questo «furor» creativo, demiurgico, in cui convivono Vulcano e il creatore del Golem e lo scultore attuale dei simboli primari, a conferire unità al percorso. Si parte dall'autocalco del proprio corpo depilato (regresso) che semiemerge da uno stagno «amniotico» in cui la sabbia di fondo conserva memorie delle origini pittoriche dell'artista (così come l'interno della Campana) e si approda all'astrazione magica e preziosa dei Paesaggi del 1994, cerchi, quadrati, sfere in rame e in ferro, contesti di infinite lamelle sagomate in forma di città ideale. Lungo il percorso, molte avventure contemporanee, fagocitate e metabolizzate da questo «furor», tracciano il profilo di un paesaggio geniale fra natura e arte, fra leggende e mondi futuri, che rimescola in un grande gioco-spettacolo categorie e modelli vecchi e nuovi. I confini fra partecipazione, passione e ironia, cultura e fantasia, sogni e simboli (uno, straordinario in quanto realizzato: dare forma e terza dimensione al suono) sono in continuo spostamento e fibrillazione: la fantasia nobile della Campana figlia nella stanza successiva la brutalità ambientale del Batacchio bronzeo; il fuoco unifica miti mediterranei e paesaggi romantici. La metamorfosi coinvolge Fontana e Burri; l'ultima magica versione, il Sole nuovo in alluminio e ferro - le diversità materiche creano distanze incredibili fra gli stessi temi, è un figlio fantascientifico degli occhi cigliati di Odilon Redon; la purezza mentale del gruppo di legni e bronzi di Tamburi, campane e campanacci evoca l'aura rarefatta di Morandi. La qualità del lavoro degli ordinatori. Castagnoli e Passoni, tradotta anche nel rigore scientifico del catalogo Fabbri, è ben degna di questa, finalmente, riapertura, del discorso della Galleria Civica sull'oggi e sui suoi valori autentici. Marco Rosei «Batacchio» del 1979, opera in ferro ' di Mainolfi con staffa in bronzo lunga 3 metri, presentata nella bella mostra che Torino dedicata all'artista che ha creato l'emozionante «Sole nero»

Luoghi citati: Torino, Venezia