Democrazia e Apocalisse

Dal processo a Gesù alla Seconda Repubblica: le radici del consenso nello Stato moderno Dal processo a Gesù alla Seconda Repubblica: le radici del consenso nello Stato moderno QUINZIO - ZAGREBELSKY Democrazia e Apocalisse STORINO ESU' come simbolo della democrazia, Pilato personificazione della demagogia. Fra la Palestina di duemila anni fa e i nodi irrisolti del mondo d'oggi, un biblista-teologo apocalittico a confronto con un uomo di legge che nonostante tutto continua a credere nella ragione applicata alla politica. Da una parte Sergio Quinzio, coscienza critica e tormentata del cristianesimo, che ancora nel Mysterium iniquitatis (Adelphi) si è interrogato sul problema del male, delle promesse non mantenute della «novella». Dall'altra Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista allievo di Bobbio, il teorico del «diritto mite» che nel pamphlet Il «Crucifige!» e la democrazia (uscito da Einaudi) affronta i suoi temi più congeniali da un punto di vista insolito. I protagonisti del Vangelo, del processo a Cristo, alludono a dimensioni e problemi del vivere associato che continuano a pungolarci: il Sinedrio come rappresentante dello spirito dogmatico, Pilato dello spirito scettico, Gesù dello spirito critico. ZAGREBELSKY: «Io dò un'interpretazione mia: il silenzio di Cristo davanti a Pilato. Qui certo si potrebbe discutere, perché questo atteggiamento è stato visto spesso come silenzio trionfante, espressione del dogmatismo: il dogma non si difende, non può scendere ad argomentazioni, perché così si relativizzerebbe. Ma il silenzio di Cristo di fronte all'accusa...». QUINZIO: «Di fronte all'accusa tace, come "una pecora muta condotta al macello". In questo sì, c'è atteggiamento democratico, rinuncia al confronto in nome di un'autorità che si desidera far prevalere: come se la causa della verità non si potesse difendere coi metodi né dei dogmatici né degli scettici. Il silenzio come unica scelta». ZAGREBELSKY: «E come tentativo di riallacciare il dialogo. E' anche un nostro atteggiamento: taccio perché non ho parole, perché l'accusa che mi fa è troppo grossa. All'epoca di Cristo esistevano due tipi di processo in Israele: il mishpat, il giudizio fra estranei, in cui l'offeso porta l'offensore davanti a un terzo imparziale che compensi il torto; e il ryb, il procedimento più arcaico, che si applica fra amici e parenti e non ha per scopo la distruzione dell'avversario ma la riconciliazione. Nel Gesù silenzioso si può vedere la scelta di un ryb, teso a ristabilire un rapporto con gli offensori. E in fondo anche il silenzio del padre, nella parabola del figliol prodigo: di fronte a un torto, il padre non può fare altro che tacere, e aspettare che questo silenzio lavori nella coscienza». QUINZIO: «Be', io sono un po' più scettico circa la possibilità che // biblistanon si fonma nasce questo silenzio sia efficace. Comunque sono d'accordo con quanto lei dice su Pilato. Kelsen sosteneva che l'aspetto democratico si incarna nella posizione di Pilato: Pilato si appella al popolo perché avverte la mancanza di un criterio di verità, quello che i dogmatici avrebbero voluto imporre. Ma, dice lei, questa è vera democrazia? Questa non è vera democrazia, questa è una caricatura di democrazia. Se non sbaglio già Tocqueville parlava della tirannia delle masse». ZAGREBELSKY: «Ecco, per appellarsi al popolo non c'è bisogno di essere democratici». QUINZIO: «Sono d'accordissimo, anche in riferimento all'attualità. Credo che il pericolo oggi sia proprio questo uso falso della democrazia. Però... Lei fa una distinzio- ne: atteggiamento dogmatico, atteggiamento scettico - entrambi negativi - a cui oppone l'atteggiamento critico. Ma ci sono società, o autorità, che non sono sostenute da una forma dogmatica e neppure dominate dalla scepsi. Voglio dire: non è che io pago la tassa di circolazione della mia automobile perché c'è un'autorità dogmatica che me 10 impone, oppure perché sono uno scettico die dice "ma sì, per evitare 11 peggio...". Si obbedisce alle leggi perché c'è qualche cosa di non scritto, di antecedente anche a qualunque norme costituzionale, che induce a un certo atteggiamento. Questa è la forza del costume. Non necessariamente l'unica via d'uscita da questa antitesi, dogmatico/scettico, deve consistere in una democrazia critica (perché avrei le mie riserve anche sul concetto di democrazia critica), ma dovrebbe risolversi all'interno di un mutamento di cultura». ZAGREBELSKY: «Ma ci può essere una visione pietrificata della tradizione: il dogmatismo. Ci sono poi forme diverse di richiamo ai valori tradizionali. Per esempio la polemica di Burke contro la Rivoluzione francese: voi volete ricominciare da capo senza basi, volete tagliare la Storia; noi inglesi viceversa riconosciamo la tradizione, ma non come elemento indiscutibile: come elemento di partenza su cui inserirsi per provare, riprovare empiricamente, migliorare. E' l'etica della possibilità». QUINZIO: «Io però ho parlato di "costume". Non vorrei usare "tradizione", che ha un sovraccarico di significati ideologici. Ma oggi dove sta il costume? Ecco il dramma: nel nostro mondo non c'è più un costume, si vede anche nella moda. Non c'è un ethos, perché il costume è poi un ethos. Non c'è un'etica, non ci sono principi. E quando non ci sono questi principi si cade per forza o nel dogma o nella scepsi. Ma ci sono state epoche in cui questi due atteggiamenti non soffocavano il confronto. Se io scrivessi oggi la centesima parte di quello che dicevano i mistici o i santi medioevali sul Papa, sarei fucilato. Quella era una società strutturalmente dogmatica, però lasciava spazio. E poi pensiamo: quante cose la Chiesa si è rimangiate, nella storia... Anche la struttura più dogmatica, finché conserva un minimo di serietà, ha una certa mobilità interna. Ma oggi pure il dogmatismo ha perso quella dignità che aveva una volta». ZAGREBELSKY: «Sì, però l'appello al dogma diventa nel contesto dogmatico l'arma definitiva. Prendiamo il dibattito oggi sulla contraccezione, sull'aborto ecc. Può darsi che tra 200 anni la Chiesa ri- veda le sue posizioni, ma oggi le sostiene in teirmini dogmatici e probabilmente fra 200 anni farebbe lo stesso, pur cambiando i contenuti». QUINZIO: «Questo è vero, però è anche vero che, su cento teologi, se lei me ne trova uno che dice quello che dice il Papa... Che la Chiesa abbia una mentalità dogmatica è indubitabile: anche se il Papa è di sicuro meglio di quelli che ha intorno, perché probabilmente ci crede davvero...». ZAGREBELSKY (ridendo): «Tutto questo resta, eh! Non è, come si dice, fuori verbale...». QUINZIO: «Ma sì ma sì... Voglio dire: ci sono i Buttiglione, c'è gente che dice "Non sei d'accordo? Ti sbatto fuori", "Non siete d'accordo in dieci? Via", "In cento? Via". L'atteggiamento dogmatico è ben riconoscibile. E non solo all'interno del cattolicesimo, ma anche in altre tradizioni o in certe formazioni politiche: tutti quelli che proclamano "La verità è questo", "l'Italia è con noi", "Il 27 marzo...". Però fin quando si rimaneva in un dogmatismo serio c'era una spazio di dibat¬ tito. Io credo che una società seriamente dogmatica, come una società seriamente scettica, non siano chiuse nel dogmatismo o nello scetticismo, ma abbiano un'apertura al senso critico. In una società come la nostra, invece, in cui non si ammette nulla di necessario, è estremamente difficile pervenire a un'etica. Perché secondo me una possibilità assoluta che non si definisca in relazione a una qualche necessità, magari ridotta al limite, magari piccolissima, be'...». ZAGREBELSKY: ((Pensiamo a un'etica indiscutibile minima: la sopravvivenza della specie, la responsabilità verso i figli e le generazioni a venire. Pensiamo a Jonas, Il principio responsabilità». QUINZIO: «Ma Jonas è anche stato criticato: perché, poi, l'uomo dovrebbe sentirsi responsabile di ciò che succederà?». ZAGREBELSKY: «E' l'appello etico». QUINZIO: «Sì, però: motivarlo è abbastanza difficile, perché abbiamo alle spalle millenni in cui non siamo riusciti a motivare i comportamenti. Perché una madre non deve abbandonare il figlio, perché il padre non deve andare a letto con la figlia? E' un costume ancestrale. Per cui secondo me un briciolo di necessità dovrebbe pur essere sal¬ utto è ficabile: alogo» vaguardato, e non so se quei riferimenti che mi indica lei siano veramente sentiti come necessari. Certo, lei come costituzionalista riceve uno stipendio per indicare "come si dovrebbe fare per"; io disgraziatamente questo stipendio non ce l'ho e posso permettermi di offrire posizioni puramente apocalittiche». ZAGREBELSKY: «I costituzionalisti hanno una risposta forse fin troppo semplice: fissare il testo indiscutibile, che è la Costituzione, con i valori a cui fare riferimento. In fondo, in quanto inviolabili, sono dogmi anche questi. Ma dogmi convenzionali, prodotti da una discussione, da un'assemblea costituente. E oggi sono questi, ma domani potrebbero essere altri». QUINZIO: «Io però conservo un rimpianto... Questo lo diceva il Tao: l'imperatore non fa mai leggi, perché se emanasse una norma vorrebbe dire che qualcosa non va. Ogni legge in qualche modo è la spia di una condizione imperfetta: l'ideale sarebbe non averne bisogno. Per questo dico che ci dovrebbe essere un qualche cosa di antecedente alle norme giuridiche: come la legge fondamentale viene prima delle altre leggi, cosi a monte della Costituzione dovrebbe esserci un qualche criterio che non sia quello della pura possibilità». ZAGREBELSKY: «Il criterio della maggioranza». QUINZIO: «Ma anche 'sta maggioranza, poi... Confesso che io non credo nella democrazia: prova ne sia che non ho mai votato. Penso che l'unica possibilità di convivenza sia quella che nasce da una cultura comune. E quando questo criterio del consenso della maggioranza viene radicalizzato, quando non c'è più nessun riferimento a un ambito sia pure minimo di necessità, allora resto perplesso». ZAGREBELSKY: «Io però direi che questo nucleo comune, mentre in passato era un dato posto da un'autorità, oggi è un problema, è qualche cosa da costruire: il prodotto di una ricerca. Quindi ha un aspetto convenzionale. Ma il contesto convenzionale della democrazia non significa che ciascuno di noi, come invece sembra dire Kelsen, debba essere uno scettico. Il cattolico a cui la legge 194 non va a genio, dalla democrazia non è tenuto a dire: la accetto. Semplicemente, è tenuto a dire: non voglio imporre niente, però in questo regime politico è lasciata aperta la possibilità per ciascuno di agire, di lottare per modificare». QUINZIO: «Però io non posso non temere, quando si riconosce l'assoluta convenzionalità, quando si arriva a universalizzare questo principio e a dire che tutto è relativo». ZAGREBELSKY: «Tutto è relativo, tutto è convenzionale, ma tutto è migliorabile. Questo è il punto. Naturalmente il meglio in questo contesto è un meglio convenzionale, è qualche cosa su cui ci si mette d'accordo. Il dogmatico sa bene non che cosa è il meglio, ma cos'è il giusto o il vero. Invece il meglio ha (dovrebbe avere) questo valore dialogico. Ecco Cristo che tace: senza rifarsi ai dogmi, senza sprofondare nella scepsi, per lasciare aperta la strada della possibilità». A CURA DI Maurizio Assalto // biblista: «la convivenza non si fonda sulla maggioranza, ma nasce dalla cultura comune» // costituzionalista: «Tutto è convenzionale e modificabile: il meglio è frutto del dialogo» Faccia a faccia sul «Crucifige!» in uscita da Einaudi Quinzio e Zagrebelsky a colloquio; sopra, il fregio dell'Ara Pacis

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