Requiem per la Russia di Alessandra Levantesi
18 «Musica per dicembre», unico film al Festival, neanche bello Requiem per la Russia E dall'America il killer di buon cuore CANNES. Requiem per la Russia presente sulla Croisette con un solo film, «Musica per dicembre» (Un certain regard), che per giunta non ha nessun motivo per figurare in un festival internazionale. Il regista Ivan Dykhovitchny ha un bel raccontare attraverso il ritorno a casa del protagonista, un artista trasferitosi sei anni prima nel Maine, la crisi culturale, economica e spirituale del suo Paese: dove i ricchi esponenti del neocapitalismo selvaggio vivono nel compromesso e sono afflitti da occidentali alienazioni, chi affondando nell'alcol chi rimpiangendo l'amore perduto, mentre chi si vuole mantenere puro rischia di non essere in grado di pagare il conto della propria libertà. La prova migliore che la Russia sta messa male è proprio questo film di modestissimo spessore e persino mal recitato (a parte Elena Sofonova, ma che tristezza vedere ridotta così la bella interprete di «Ori Ciomie»). Magari c'erano titoli migliori, difficili da pescare nel confuso marasma delle tante repubbliche e in mancanza di una rappresentanza di Stato, tuttavia abbiamo l'impressione che si deve risalire al periodo stalinista del dopoguerra per trovare una produzione tanto scadente. Passando sul fronte dell'ex nemico americano, «Cose da fare a Denver quando sei morto» dimostra invece che non tutti gli esordienti con una gangster story sono Quentin Tarantino. In verità il primo a prendere le distanze dall'autore di «Reservoir Dogs» è proprio il neocineasta Gary Fleder: che sulla base della sceneggiatura di Scott Rosenberg contrappone alla cinica irriverenza del collega il valore dei sentimenti. Impersonato da Andy Garcia, Jimmy è un ex criminale che fa uno strano lavoro: realizza video di malati terminali desiderosi di lasciare un messaggio finale ai familiari (la trovata più curiosa del film). Ma gli affari vanno male e il suo ex boss (Christopher Walken) che trama perfidie dalla sedia a rotelle lo ricatta costringendolo a fare un lavoretto per lui. Tutto precipita e Jimmy con la sua banda di mezzi tarati si trova nei guai perché il capo per vendicarsi chiama il killer più feroce d'America (Steve Buscemi). Fleder un po' gioca d'ironia un po' vorrebbe coinvolgere lo spettatore nei guai di Jimmy che ha incontrato il grande amore della sua vita e in fondo è buono. Però non ci riesce perché la storia va di qua e di là e la regia è così inconsistente che dà il tempo di riflettere. E riflettendoci, non puoi affezionarti a degli assassini solo perché hanno un cuore. Molto meglio «Cafè Society» (Quinzaine) del debuttante Raymond DeFelitta, anche pianista di jazz e compositore della colonna sonora della sua opera prima. La quale prende le mosse da un fatto di cronaca che molto appassionò l'opinione pubblica nel '52: uno squallido giro di prostituzione per clienti abbienti gestito da stelline fallite e loschi uffici stampa. Tuttavia il nome che fece sensazione fu quello di Mickey Jelke, erede del re della margarina, impenitente donnaiolo e animatore delle notti newyorkesi. A provocare lo scandalo fu l'interesse politico in una crociata moralizzatrice e a incastrare Jelke un agente della buoncostume infiltrato. Pur manieristico (il modello confesso di DeFelitta è Billy Wilder) il film è abile nel ricostruire a basso costo e con l'aiuto di materiali di repertorio la New York d'epoca dei grandi locali notturni, dallo Stork all'Embers. E «Cafè Society» ha altri meriti: di mettere l'accento sulla sempre latente sessuofobia della società americana, l'accorgimento stilistico di riprodurre i festini attraverso la macchina da presa amatoriale di Mickey e un bel cast in cui spiccano gli ottimi Frank Whaley (l'erede) e Peter Gallagher (il poliziotto). Alessandra Levantesi farcia ' '>ex criminale che realizza video di malati terminali in «Reservoir Dogs»
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