Toma il Caravaggio perduto di Marco Vallora

«La presa di Cristo nell'orto», scoperto lo scorso anno a Dublino, ora è in mostra a Roma «La presa di Cristo nell'orto», scoperto lo scorso anno a Dublino, ora è in mostra a Roma Toma il Caravaggio perduto Gesù e Giuda stretti in una morsa di fuoco Et ROMA / sempre un compito molto delicato, quello dell'intitolare le mostre. E' -—.—I un poco come per i titoli di giornale: c'è poco spazio a disposizione e bisogna colpire l'immaginazione. Ma si rischia anche molto, fraintendendo le attese del pubblico. Si legga bene il titolo, per esempio, che campeggia su questa mostra in corso a Palazzo Barberini e che sarà probabilmente prorogata sino a fine giugno: Caravaggio e la Collezione Mattei (ed è anche il succo del denso catalogo Electa, ricco di documenti e di saggi sul collezionismo secentesco). Non si equivochi, dunque: chi viene, speranzoso di trovarsi nel cuore d'una retrospettiva dedicata al Caravaggio non può che rimanerne deluso. Ma chi intende la vera funzione della mostra che riaccosta, con molte altre, le tre opere commissionate all'irrequieto artista da Ciriaco Mattei (insieme al fratello Asdrubale e a Girolamo, che si tenne in casa il rissoso artefice della rivoluzione linguistica «del naturale», il più sensibile rappresentante d'una delle famiglie di mecenati più attivi e perspicaci della Capitale) non può che esser grato comunque a questo tentativo di recupero storico, che soprattutto riporta in Italia un capolavoro, recentissimamente restituito al Caravaggio. Quel magnifico La presa di Cristo nell'orto che l'altr'anno è sortito fuori da Dublino come un'imprevedibile sorpresa e che due studiose, allieve di Calvesi, Laura Testa e Francesca Cappelletti, hanno ormai suffragato di esaurienti documenti. Restauratore e studioso che da anni lavora in Irlanda, Sergio Benedetti ha ricondotto alla «lama» infallibile del Merisi questa torva sequenza biblica, che negli anni era citata come' di Gherardo delle Notti (ed anche transitata alle aste senza che nessuno quasi se ne accorgesse). Una concitata macchina di drammaturgia sacra, ferrosa fin negli «affetti», già controlla- ta dalla semiotica controriformistica. (Oggi si tende sempre meno a considerare Caravaggio un artista solitario e maudit, romanticamente deformato, ma si sottolineano i suoi legami con la mistica oratoriana riformata e con San Filippo Neri, cui era legata anche la famiglia Mattei, che pure corrispondeva con Galilei. Un contesto davvero ragguardevole). C'è, nella scena d'imprigionamento, come un richiamo esplicito ai teatrali movimenti della sorpresa sacra, che già inquietavano la di poco precedente (siamo intorno al 1601) tela della Cena in Emmaus, che oggi proviene da Londra e che proficuamente si può studiare a lato. Quell'estremo misurare lo spazio soffocante da parte dei gesti umanissimi e scolpiti degli Apostoli, che riconoscono in quel giovane senza barba (se- condo la precettistica del Cristo apollineo di tradizione paleocristiana) il Redentore, che si «tradisce» facendosi sorprendere «in fractione panis», nel gesto eloquente del benedire il pane. «Quadri di tremenda naturalezza» come scrive lo Scannelli, uno di quei controversi ammiratori, che non potevano però fino in fondo accettare quella scandalosa assenza di «decoro, degenerando spesso Michele nelle forme humili e volgari». Tra le «forme rustiche» dei devoti e «l'hoste con la cuffia in capo», ancora odorosa di grassi e di cucina. E come quei parrucconi della critica, che obiettano se un Ronconi si prende qualche licenza registica, anche qui gli contestano quel miracolato «piatto d'uve e di fichi e melanzane fuori di stagione». Quel cestello in bilico, che sta per tracimare, in attesa spasmodica del gesto incantato del Cristo-fanciullo: sul bordo estremo dell'Apocalissi. Ma ancora più estrema è la ribalta «strozzata» della Presa di Cristo; davvero una presa disperata di spazi e di corpi, dove manca l'ossigeno dell'equilibrio. Con quella mano bugiarda del Giuda che si fa forza sulla tonaca rossa di Cristo, e la mano di ferro, guantata di corrusca corazza, del soldataccio armato, che chiude la scena e l'«aria», stringendoli entrambi in una morsa di fuoco. Mentre in basso si annoda la pausa sublime delle mani intrecciate del Cristo, che sa e si stacca dal mondo, costringendo Giuda al suo ruolo «provvidenziale» (virtù francescane di abnegano e oboedientia) e sullo sfondo la figura incisa, dùreriana di San Giovanni dilata il suo urlo senza voce, tastando lo spazio d'apnea. Ma non basta: sulla destra s'affaccia un volto giovane, apprensivo, in cui Longhi, credibilmente, aveva intuito un autoritratto del Caravaggio: «Diogene alla ricerca dell'uomo-Cristo, cioè alla ricerca di fede e redenzione». Qualcuno che arriva troppo tardi, con la sua inutile lanterna e tenta vanamente di vedere, di capire: un dettaglio quasi borghesiano, l'autore che non riesce a scoprire quanto ha appena dipinto. Che subentra in ritardo, nella tragica festa del guardare. Ma la mostra non si esaurisce qui (oltre ad esporre il San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina, un tempo da Venturi ritenuto una copia e riscoperto da Denis Mahon nello studio del sindaco, nel 1953, avventurandosi su una scala a pioli). Sotto lo splendente affresco di Pietro da Cortona, che canta le virtù dei Barberini (scene di Buon Governo e di Minerva che vince i Titani, ovvero del Papa che scaccia le eresie), si snoda - sia pur sommariamente ambientato - quel che era reperibile della vecchia Collezione Mattei, trofeo di un'epoca che mimava le Farnesine raffaellesche e in cui anche il cavalier Marino confessava il suo «sogno d'una galeria». Ed è interessante verificare quale fosse il carisma di Caravaggio in quegli anni, reclamizzato con «grandi schiamazzi» dall'Orsi, che lo impone al Mattei: il quale sarebbe poi diventato un suo fan indefesso. Così, sottraendosi «al cerebrale e artificioso codice del manierismo» (Calvesi) si fanno necessariamente «caravaggeschi» anche Pietro da Cortona, l'Orbetto, il Passerotti. Di lui, nella sua «maniera vaga e delicata»; sono in mostra le bellissime scene di Pescheria e Macelleria, «Pitture ridicole» le chiamava il Cardinal Paleotti. Del fiammingo Brill la rara serie dei possedimenti Mattei, a Giove o Castel Belmonte; di Valentin una tenebrosa, contrita Ultima cena. Ma l'unico che riesca a terribilmente contendere lo scettro a Caravaggio è il sublime Serodine, con le sue scene tarlate di torbidi pigmenti, ulcerate di dolore. Marco Vallora A sinistra, «La presa di Cristo nell'orto» scoperto lo scorso anno a Dublino In alto, particolare del «San Giovanni Battista»