Giudice antimafia finisce sott' accusa di Giovanni Bianconi

L «Minacce a un imputato». Lui: una trappola Giudice antimafia finisce soff accusa E' GIALLO SU UN'INDAGINE L B ROMA '"* ACCUSA è grave, «minaccia per costringere a commettere reato», articolo 611 del codice penale, pena prevista reclusione fino a cinque anni. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio e l'imputato non è un signore qualsiasi, ma Roberto Pennisi, sostituto procuratore antimafia di Reggio Calabria. Per questo giudice quarantatrenne dalla vita blindata gli appellativi e i paragoni guadagnati negli ultimi quattro anni si sprecano; i più comuni variano tra il «Di Pietro» e il «Falcone» di Reggio, a testimonianza del suo lavoro nelle inchieste su tangentisti e cosche in terra di 'ndrangheta. Stavolta si ritrova sul banco degli imputati insieme al vicequestore Mario Blasco, ex capo della Squadra Mobile reggina, stessa accusa e stessa richiesta di rinvio a giudizio. Tutto per una vicenda che risale al '93, per la quale Pennisi si dichiara innocente e commenta, lui che è già scampato a un attentato: «In Calabria la mafia non ha bisogno di ammazzare i giudici come in Sicilia, li toglie di mezzo così, con altri mezzi». L'accusa viene da un tal Salvatore Filippone, un calabrese imputato di associazione mafiosa e traffico di droga, il quale ad altri giudici calabresi ha raccontato la storia della presunta minaccia subita da Pennisi e Blasco. Era l'ottobre di due anni fa, e alla fine di un interrogatorio ha rivelato Filippone - il vicequestore Blasco lo avvicinò per dirgli, più o meno: «Guardi che lei è messo male, sono in arrivo altri due ordini di cattura, ma se collabora e ci fa i nomi di magistrati e politici collusi con la mafia se la può cavare. I pentiti che gestisco io stanno bene». Subito dopo, sempre secondo il racconto di Filippone, arrivò anche Pennisi che gli consigliò di dar retta a Blasco: «Se non fa come dice, rimarrà sepolto in galera tutta la vita». Tra i nomi da chiamare in causa, secondo il detenuto, quelli dell'ex presidente della Corte d'appel- lo di Reggio, Giuseppe Viola, e l'avvocato generale Giovanni Monterà; i fatti li avrebbero suggeriti Blasco e Pennisi. Un'accusa gravissima, che andrebbe ad inserirsi nella guerra che da tempo divide la magistratura calabrese, approdata al Csm e per la quale di recente il ministro Mancuso ha promosso l'azione disciplinare - per episodi diversi - contro altre due «toghe»: Saverio Mannino, oggi componente del Csm, ed Enzo Macrì, della Superprocura antimafia. Il verbale di Filippone è finito a Roma, città dove sarebbe stato commesso il reato. Interrogati, Pennisi e Blasco hanno dato una ricostruzione totalmente diversa dei fatti, spiegando che in realtà Filippone disse al poliziotto di essere pronto a fare delle «soffiate» sulla criminalità organizzata della locride in cambio di un po' di benevolenza da parte del giudice; a quel punto intervenne Pennisi: «Filippone, ormai non è più tempo delle confidenze ma quello, se vuole, della collaborazione aperta». Accertato che il colloquio ci fu e interrogati altri testimoni, il pubblico ministero Francesco Misiani ha deciso di chiedere il rinvio a giudizio del suo collega e del poliziotto, che ora dovrà passare il vaglio del gip. «Sia chiaro che io non ce l'ho con il collega, al suo posto mi sarei comportato allo stesso modo», commenta Pennisi, che poi aggiunge amaro: «Con un meccanismo innescato da un affiliato alla cosca dei Piromalli si rischia di bloccare il più grosso processo contro la criminalità organizzata in Calabria, dove Filippone è imputato. Io sostengo l'accusa, e adesso mi ritrovo imputato di un reato che avrei commesso ai danni di un mio imputato. Capisce che cosa significa?». Il giudice antimafia dipinge il suo accusatore come «uno che era sul punto di acquistare tre o quattro banche nell'ex Unione Sovietica, sospettato di avere rapporti con ambienti politici e istituzionali. Il fatto è - si sfoga Pennisi - che siamo stanchi di essere pochi, soli e attaccati. Con esplosivi e altri sistemi». Giovanni Bianconi Roberto Pennisi, sostituto procuratore antimafia di Reggio Calabria, è uno dei magistrati più impegnati nella lotta alle cosche