Che fare dell'agente Sonja? di Enzo Bettiza

Che lare dell'agente Sonja? Che lare dell'agente Sonja? La Mata Hari che ho conosciuto bene IL CASO UNA VITA PER LA STASI Li A sentenza assolutoria con cui la Corte Costituzionale tedesca ha chiuso il più ingarbugliato contenzioso giuridico del secolo, asserendo che le ex spie della ex Germania comunista non possono essere penalmente perseguibili nella Germania riunificata e riconciliata, mi proscioglie in un certo senso da un vincolo che fin dal 1986 avevo preso con me stesso: non dire nulla in termini giornalistici di una donna che avevo conosciuto personalmente, con la quale avevo addirittura lavorato per qualche tempo, e che poi doveva rivelarsi una cléllè' piS importanti «talpe» infiltrate da Markus Wolf, il capo della Stasi, ai vértìcftieVtìoridò'pòKtiiJó'e governativo di Bonn. Dopo Gunther Guillaume, collaboratore e amico intimo del Cancelliere Willy Brandt, era stata questa donna la spia di maggiore capacità mimetica e di maggiore durata nel tempo che la Stasi fosse riuscita a far convivere quotidianamente al fianco di un altro profilatissimo politico tedesco: Martin Bangemann, ex ministro dell'Economia del governo di Bonn e oggi commissario per il settore chiave dell'industria e delle telecomunicazioni europee alla Commissione esecutiva di Bruxelles. Il nome della «talpa», riapparso sui giornali accanto ai nomi di Guillaume e di Wolf in seguito all'amnistia promulgata dalla Corte di Karlsruhe, è sempre quello falso sotto il quale l'avevo conosciuta: Sonja Luneburg. Bangemann, già noto avvocato a Stoccarda, poi segretario generale della Fdp, il partito liberale tedesco, era all'epoca il presidente del gruppo liberale del Parlamento europeo; io ne ero il vicepresidente, ero quindi in permanente contatto con lui e con i suoi assistenti, fra i quali spiccava la riservatissima e fedelissima Sonja Luneburg. Ovvero: la sedicente Sonja Luneburg. «Sonja», più che una spia venuta dal freddo, era venuta dal nulla. La sua origine vera, la sua data e il suo luogo di nascita, le sue autentiche generalità erano e restano tuttora avvolte nel più impenetrabile mistero. Pare che in gioventù avesse fatto la pamicchiera a Colmar, la seconda cittadina alsaziana dopo Strasburgo, appoggiata alla frontiera con la Germania e popolata in prevalenza da un'etnia tedesca per lingua e costumi. Sonja Luneburg era il nome della proprietaria del negozio: la quale ad un certo punto, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta improvvisamente scomparve e nessuno la rivide più. Oggi si sospetta che la vera Luneburg fosse stata rapita o soppressa da agenti della Stasi, forse con l'ausilio della falsa Luneburg; qualche giornale ha scritto che è stata finalmente ritrovata, folle e smemorata, in un nosocomio di Berlino Est. Fatto sta che la sedicente Sonja ne prese le generalità, ottenendo dai falsari specializzati della Stasi, un passaporto tedesco occidentale intestato al nome della scomparsa. Non so in quale circostanza e dove Bangemann abbia conosciuto l'ex parrucchiere. La quale però, appena incontrata, diventa quasi subito non solo una sua valente segretaria e collaboratrice, ma addirittura un'amica di sua moglie e dei suoi figli adolescenti. Tipica caratteristica delle spie tede sce orientali, messe alle calcagna di un importante personaggio tedesco occidentale, era la lunga e perfezionistica preparazione al ruolo che stavano per assumere: ruolo e servizio a vita, senza possibilità di ritorno alla propria identità cancellata, dedicati interamente e direi misticamente all'esistenza della persona che doveva essere spiata, seguita, auscultata, consigliata, aiutata nel lavoro e nelle difficoltà familiari, ventiquattr'ore su ventiquattro. Tutto ciò che il segretario e amico Guillaume fu per Brandt, «Sonja Luneburg» divenne per Martin Bangemann: donna di fiducia, confidente e consigliera, un'ombra assidua e rassicurante. La talpa dovette stringere un più ravvicinato contatto di lavoro con me quando Bangemann mi conferì l'incarico di dar vita a un mensile di cultura in quattro lingue, francese, inglese, tedesco e italiano, che decidemmo di chiamare Présence Libérale. Bangemann, che era l'editor della rivista di cui io ero il direttore, mi disse: «Per tutte le cose tedesche fai capo a Sonja. Fidati nella maniera più assoluta di lei e della sua precisione organizzativa». Così tentai di fare, ma presto entrai in rotta di collisione. Non mi piacque il modo di lavorare della donna, strano, obliquo, diffidente, in definitiva più poliziesco che editoriale. Sentivo che diffidava di me perché parlavo il tedesco e il russo, perché non ero un italiano tipico, perché insomma non riusciva a catalogarmi in una sua casella mentale precisa e univoca. Da brava spia, evidentemente temeva che anch'io, data una certa mia fluidità anazionale, potessi essere una spia di segno magari contrario. Avemmo una volta uno scontro. In un numero preparatorio della rivista, lei, che andava assumendo un tono sempre più arrogante, avrebbe voluto rompere i delicati equilibri nazionali delle collaborazioni, soverchiando con firme tedesche quelle d'altra provenienza comunitaria. Dovetti ricordarle con fermezza che il direttore responsabile ero io e che lei era soltanto la prolunga burocratica dell'editor Bangemann. Da allora non mi parlò quasi più e si ritirò cupamente in se stessa. Ci togliemmo anche il saluto. A quel tempo «Sonja» avrà avuto 45 anni. Era di media stature, piuttosto tozza, con un casco di capelli lisci grigiastri, tagliati netti a mezza guancia, ciò che le conferiva un'aria di suora laica. Vestiva modestamente, cercava di non dare nell'occhio. Cercava, soprattutto, d'imbrigliare il suo fondo caratteriale energico e prepotente entro una pellicola grigia e anonima. Aveva però un vizio: beveva. Stranamente, l'intelligente «Sonja» fingeva di non conoscere una sola parola di francese, che era ed è tuttora la «lingua franca» nelle istituzioni comunitarie. Forse non voleva che qualcuno potesse sospettare qualcosa sulla parte della sua precedente vita segreta trascorsa a Colmar, in Alsazia, dov'era infatti impossibile ignorare il francese. Ma una notte, in un ristorante di Bruxelles, dopo aver bevuto un po' troppo cominciò a parlare fluidamente il francese col cameriere, fra lo stupore dei convitati che la conoscevano assolutamente monolingue. Fu il suo secondo errore, dopo quello, tecnicamente minore, commesso nel comportamento arrogante usato con me durante le preparazioni redazionali di Présence libérale. Fra il 1985 e '86 Bangemann la introdusse in un ufficio accanto al suo nel ministero dell'Industria a Bonn. Lì «Sonja» toccò il culmine della sua carriera di «talpa» a vita. Non solo passò i più importanti documenti riservati del ministero a Berlino Est. Ma quando la linea filodemocristiana di Bangemann cominciò a prevalere in seno al partito liberale, e la Fdp si preparava a rovesciare l'alleanza con i socialdemocratici e riunirsi nel governo alla Cdu, riuscì a far sapere alla Stasi la notizia prima che la conoscessero gli stessi partiti tedeschi occidentali direttamente toccati dal cambio. Fu l'ultima operazione di «Sonja». Siamo nel 1986. Circa nello stesso periodo la Cia pubblica una lista di quattrocento nomi, tutti di spie della Stasi operanti in Germania. Ai primissimi posti appare quello di Sonja Luneburg. Ma la «talpa», preavvertita, ha già preso la rotta aerea che era solita adoperare per i suoi occulti soggiorni di servizio nella Repubblica democratica tedesca: Stoccarda - Roma - Atene - Sofìa - Berlino Est. Alla vigilia della caduta del Muro e della ramificazione, la spia riparò in Unione Sovietica sotto la protezione del Kgb. L'asilo durò poco. La nuova burocrazia russa di Eltsin consegnò «Sonja» alla giustizia della Germania riunificata, che la mise sotto indagine e processo. Ora resta il quiz giuridico: l'assistente prediletta del ministro dell'Industria era davvero approdata a Stoccarda come funzionarla della Stasi dalla Germania orientale, sulla fine degli Anni Sessanta? Oppure era una tedesca occidentale, parcheggiata per qualche tempo nell'Alsazia francese, e poi infiltrata nella segreteria e nella casa di Bangemann? Nel secondo caso, secondo la sentenza della Corte Costituzionale, il processo potrebbe farsi, nel primo no. Ma chi fosse, chi era veramente la spia venuta dal nulla, con ogni probabilità nessuno lo saprà mai. Enzo Bettiza Nella foto al centro il Muro di Berlino Qui accanto Rainer Rupp la spia della Ddr chiamata in codice «Topaz» Sotto Markus Wolf