CON DE MARTINO ESPLORATORE DI MITI di Bruno Quaranta

CON DE MARTINO ESPLORATORE DI MITI CON DE MARTINO ESPLORATORE DI MITI Sì annuncia l'opera omnia: Jervis ricorda il maestro smo, un fenomeno sul punto di sparire insieme con tanta parte di quel Sud arcaico descritto da Carlo Levi. Jervis è lo psichiatra del gruppo. Viaggiano su due auto malandate, si sistemano in una locanda a Galatina, di giorno vanno a vedere nelle case e nei cortili quelle donne in camicione bianco che ballano e ballano fino allo sfinimento circondate da suonatori. Di sera discutono «a tavola o attorno a un bicchiere di vino». piccolo ragno tossico che alla mietitura si nasconde nei covoni, il Lastrodectus tredecim guttatus, nero brillante con tredici puntolini rossi sul dorso. De Martino ascoltava con diffidenza, preferiva ricorrere soltanto a ipotesi storico-culturali, non naturalistiche. Fece fatica ad accettare. D'altra parte io allora ero giovane ed ero medico psichiatra: avevo una visione sbrigativa della natura umana, sottovalutavo gli aspetti mitico-rituali e il bisogno religioso. Ora non più: sono meno giovane e la stessa influenza di De Martino si è fatta sentire». In quelle sere venivano fuori questioni di fondo. De Martino, dice Jervis, «era un meridionalista influenzato dal marxismo e quindi vedeva il Sud (le no- Quel morso di tarantola Ricorda Jervis: «Gli dicevo che il tarantismo è sì un fenomeno di possessione rituale, un fatto isterico, ma che c'è pure un dato concreto, il morso di quel suo morganconsetat di dola, cosa"suo all E' stre Indie, come lo chiamava scherzando) in una prospettiva di emancipazione economica e civile che auspicava di tipo socialista». Il tarantismo sarebbe verosimilmente scomparso. Ma pensava anche che «riti, miti e simboli fossero una necessità universale»; e anche se vedeva la civiltà europea al tramonto, non era del tutto certo che «l'eventuale nuovo sole sarebbe stato quello del socialismo». Si muoveva insomma fra tensioni contraddittorie, di cui era «abbastanza consapevole». C'era allora il mito della civiltà pre-industriale: il terzomondismo sembrava una risorsa per uscire sia dal consumismo capitalistico sia dallo statalismo del socialismo reale. E il pensiero etnologico di una Ruth Benedict o di una Margaret Mead assicurava valore alle culture diverse da quella occidentale. L'interpretazione del tarantismo si proiettava su questi sfondi ideologici. De Martino era cauto: si chiedeva se il tarantismo non rientrasse in «una tematica da cui trarre un insegnamento valido nel mondo moderno». Jervis era drastico: per lui, seguace di Freud, «se una data cultura si affida a spiegazioni e speran- Piero Gobetti: Einaudi ripubblica il saggio «La Rivoluzione Liberale» to che un partito rivoluzionario deve fondarsi sulle forze più che sugli uffici"». E' estranea a Piero Gobetti la dimensione partito. Non a caso - come ebbe modo di notare Norberto Bobbio - «l'esperimento gobettiano, se mai avrà continuatori, li avrà in un partito d'intellettuali, in un partito così poco partito come il Partito d'Azione». «E non a caso - puntualizza Ersilia Alessandrone Perona - il Partito d'Azione naufragherà, una volta esaurita la Resistenza, il suo milieu, scoprendosi inetto a organizzare le masse, a costruire il consenso. E' il movimento l'habitat di Gobetti. A Giovanni Amendola, che lo sollecita a "fare qualcosa", rammenta con vigore che il suo alveo è squisitamente culturale. E', insomma, l'artefice di un programma non tanto di azione quanto di educazione, che la terza sua rivista, Il Baretti, prolungherà oltre il commiato nell'esilio parigino». «La nuova generazione sta assolvendo dei doveri che le attribuiscono alcuni inesorabili diritti. (...). Non si comprende nulla del nuovo pensiero dei giovani se non si avverte che la nostra formazione spirituale è stata in qualche modo interrotta e travagliata per opera del fascismo, che ci ha costretti a una chiusa e severa austerità, a un donchisciottismo disperatamente serio e antiromantico, quasi fossimo diventati noi i paladini della civiltà e delle tradizioni». E' l'incipit fanciullescamente spavaldo di La Rivoluzione Liberale, una sfida immane lanciata all'Italia priva di spina dorsale, l'Italia delle «sagre, dei gesti», l'Italia senza, che non ha conosciuto la Riforma, né - come la Francia - una rivoluzione nazionale (bensì il Risorgimento, un qualcosa caduto dall'alto); l'Italia che, lasciandosi imporre la camicia nera, ha rivelato - se ancora non lo si fosse capito - di non possedere serietà politica e morale. No, Mussolini «non è nulla di nuovo». «Collaboratori, non lettori», auspicava Piero Gobetti. Allora come oggi, il compito è sempre il medesimo: «Dare un tono alla nostra storia futura». Ed eguale è la molla per attuarlo: quella «volontà di ri forma e di luce» (per dirla con Franco Venturi) dominante nel piemontese Settecento eretico che aveva affascinato e modellato lo scarruffato eroe di La Rivoluzione Liberale. Bruno Quaranta

Luoghi citati: Francia, Galatina, Indie, Italia