«Noi, campioni di religione» di Piero Bianco
«Noi, campioni di religione» «Noi, campioni di religione» Dal Milan che arruola sacerdoti a Marocchi fedelissimo delle messe Li vedi correre, gioire, picchiare sui campi di calcio o nei palazzetti. E tutto ti vien da Eensare, tranne che dentro quei corpi neroruti d'atleta si nasconda uno spirito religioso, un'anima tutta intera. Lo sport sembra sovente l'incarnazione di un rito pagano, ma è davvero così blasfemo? Sono compatibili, le regole e gli orari, con l'osservanza canonica dei comandamenti? E quanti giocatori hanno il coraggio (la voglia, la possibilità) di lasciare il ritiro per il precetto festivo? Sorpresa: ci sono, eccome, gli esempi di perfetto cristiano. Dalla massa di agnostici ecco qualche insospettabile stinco di santo. Uno per tutti, Pasquale Bruno, detto Inanimale» per la irrefrenabile violenza che emana sui campi. Fu lui a recitare, in lacrime e tra lo stupore generale, le Sacre Scritture alla messa funebre del suo presidente Mario Cecchi Gori. Quando invece è via con la squadra (ora a Lecce) non ha grandi occasioni per praticare. La squadra viola non si porta appresso un prete, come usava una volta, per recitare la messa in sala da pranzo o nella hall dell'albergo. Toldo, Batistuta e Marcio Santos (la cui fede non è peraltro a prova di... trasferta), si arrangiano con preci «domiciliari». Sono rimaste poche le società che dedicano spazio al culto: una di queste è il Milan. A sabati alternati compare a Milanello un cappellano per le celebrazioni; se la squadra è in trasferta, viene precettato un sacerdote locale: sempre presenti, Capello, Donadoni, Nava, Filippo Galli. E Albertini, che ha un fratello prete: «La domenica lui lavora per rinfrancare lo spirito, io per divertire la gente; non mi sembra giusto abolire le partite». Uscire dal ritiro per cercare una chiesa vera? «Impensabile, i tifosi ci aggredirebbero», spiega il team manager Ramaccioni. Stesso problema ha la Juve, assediata in ogni angolo d'Italia. Un solo temerario si avventura, Marocchi: «Perché bisogna essere uomini, oltre che giocatori. Pazienza se c'è pure qualche autografo da firmare». Nell'Inter pre-morattiana, presidente Pellegrini, esisteva un cappellano fisso pure per le trasferte. Chiuso per fallimento: la domenica mattina si presentavano alla messa solo in due, Bergomi (cattolico doc) e Massimo Paganin. Tutto abolito. Trapattoni trovava rifugio e conforto nell'immancabile telefonata alla sorella suora. «Oggi pregano tutte per noi, vinceremo di sicuro», diceva poi; per scherzo ma non troppo. Il romanista Carboni si scopre «vaticanista» convinto: «Giusto non giocare di domenica e lasciare un giorno alla gente per meditare. Con le partite al sabato, avremmo un pubblico diverso, magari più buono». Sarà. La Nazionale, dal punto di vista ecclesiastico, è impeccabile. Già nell'era di Vicini, e ancor più con Sacchi «Cristiano dell'anno», non si sgarra dal rito della messa domenicale. Facoltativa per i giocatori, ma... vivamente consigliata. Sono lontani però i tempi in cui il mondo dello sport offriva una vetrina mistica di prim ordine: pensate, ad esempio, a Pierluigi Marzorati, che era un divo del basket italiano, vice campione olimpico, campione d'Europa. Lo chiamavano «il chierichetto», era sempre il primo (e spesso l'unico) a lasciare il ritiro in cerca di conforto religioso. Piero Bianco tesi .'-.(^i *
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