martone Un napoletano a Cannes

Un napoletano a Cannes Parla il regista che ci rappresenta al Festival e porta in teatro un inedito di Pasolini Un napoletano a Cannes ROMA ESTÀ un problema, lo smoking. Al festival di Cannes che comincia dopodomani è necessario e Mattone, unico regista in concorso col Mario italiano suo secondo film L'amore molesto, protagonista Anna Bonaiuto, Io smoking ancora non ce l'ha: quando, nel 1992, il suo primo film Morte di un matematico napoletano, protagonista Carlo Cecchi, vinse subito il premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia, durante la cerimonia portava una giacca di cotone blu, una camicia di cotone viola, niente cravatta. Nessuno ha lo smoking: «Da Napoli a Cannes verranno in tanti, L'amore molesto è un film molto partecipato, i collaboratori sono essenziali e siamo amici, vicini, insieme: è un problema generale, quello dello smoking)». Napoletano, teatrante d'avanguardia, trentacinque anni, ricci bruni, sorriso bello, occhiali, mix di passione, freddezza e timidezza, Mario Martone ha avuto nel cinema un successo immediato, del quale la scelta del festival di Cannes è una conferma internazionale: a pochi altri giovani registi è toccato un consenso tanto unanime della critica; anche gli spettatori hanno premiato i suoi due film raffinati e profondi, sensuali e dolenti, storie di memoria e di personaggi autodistruttivi nella città difficile, Napoli. Ma personalmente lo si conosce poco: l'interrogatorio semplice e un poco poliziesco vuole sapere di lui e, insieme, d'un modo diverso di fare spettacolo. Smoking a parte, andare al festival di Cannes la entusiasma o la preoccupa? «Più di Cannes mi preoccupa Parma: comincio lì le prove dello spettacolo che inaugura il 12 luglio il festival del teatro a Avignone, i miei pensieri sono concentrati li e mi fa piacere, così non sto a ossessionarmi con quello che, lo so, è un momento importante della mia vita di regista. Prepariamo un testo scritto da Pasolini con Giulio Paradisi e Sergio Citti, un medito, lo aveva Ninetto Davoli: è quasi un manifesto, un testo profetico sulla condizione che viviamo rispetto alla televisione, sul rapporto con qualcosa che abbiamo perduto. Gli interpreti sono Davoli e Paolo Graziosi. I registi sono tre: Giorgio Barberio Corsetti, Gigi Dall'Aglio e io». Ire? Come si può fare una regia in tre? «E' una forma di rispetto, così nessuno si impossessa del testo. E' una ripartizione consentita dal testo, dal suo andamento di viaggio che comincia nella Pianura Padana (Dall'Aglio), attra- versa Roma (Barberio Corsetti), arriva a Napoli (io). E' possibilissimo dirigere uno spettacolo in tre, l'ho già fatto in due con Bruno Roberti, con Toni Servillo, con Giorgio Barberio Corsetti. Io credo nel lavoro di gruppo e d'amicizia. Non credo a un teatro in cui la figura del regista, inteso come unico creatore, demiurgo, onnipotente, domini sugli attori: è una degenerazione, una delle ragioni di decadenza del teatro. Il teatro è l'attore. Per me è stato decisivo cominciare a lavorare in teatro con Toni Servillo e Antonio Neiwiller, persone vive la cui arte si manifesta nel momento in cui sono lì e agiscono; io non sono un attore e questo mi pone in una prospettiva obliqua, a me interessa la messa in crisi, la deriva, lo sciogliersi negli altri. Quasi tutto il teatro italiano mi è infatti estraneo; ritrovo il senso del teatro in Carmelo Bene, in Carlo Cecchi, attori-autori padroni di se stessi». Autodistruzione del regista? «Ma no. In teatro ho fatto cose molto diverse, potrei definirmi un situazionista, ma non credo d'aver definito uno stile personale e non me ne importa. La mia sola tendenza autodistruttiva si manifesta con la necessità di creare disordine dove s'era stabilito un equilibrio, con la più intollerante insofferenza verso la routine, l'abitudine, la ripetizione». Anche nei sentimenti? Alla protagonista de «L'amore molesto», Anna Bonaiuto, lei è legato da anni. «Non m'innamoro con facilità. Quando m'innamoro, dura. Anna l'ho conosciuta nel 1989 durante le prove di Woyzeck e non è stato un amore facile. Lei ha preferito evitare la convivenza o il matrimonio, io ho imparato a capirla». E nel cinema, come vede il regista? «Nel cinema è diverso: il cinema è fatto da chi ha la macchina da presa, il teatro da chi sta in palcoscenico». Lei ha 35 anni: le sembrano tanti, pochi, giusti? «Giusti, direi. Magari pochi rispetto alla responsabilità d'un film o d'uno spettacolo. Ma sono tanti anni che lavoro, è più di metà della mia vita: ho cominciato a fare teatro a diciassette anni». La sua è una famiglia di teatranti? «No, mio padre è pellicciaio, mia madre ha una sartoria. Io sono nato in una casa-sartoria nel centro di Napoli: stavamo a Palazzo Cellammare a Chiaia, una dimora prestigiosa dove abitava anche Renato Caccioppoli, il matematico napoletano. La famiglia era divisa in due: mio padre molto napoletano, mia madre ligure e inquieta verso Napoli; mio padre pratico, concreto; mia madre attenta alla cultura, alla letteratura, al cinema. Mia nonna, una figura per me importante, era genovese, uno spirito libero dell'alta borghesia settentrionale calata a Napoli e sempre in polemica con la città. Io sono scisso tra queste due tendenze. L'infanzia la ricordo bella, contenta; l'adolescenza come un periodo di grande sofferenza, di conflitto col mondo, delusioni e ferite». E' stato uno studente bravo? «No. La licenza liceale l'ho presa benissimo ma studiavo poco, ho avuto qualche crisi, a volte sono stato rimandato. Andavo all'Umberto, il liceo famoso della borghesia napoletana di cui, sono ex alunni Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, i "ragazzi di via Chiaia". Una scuola molto formativa, per me: c'erano tensioni, passioni, lotte politiche, figli di ricchi e figli di poveri, tanti interessi; dal professore Greco, insegnante di latino e greco, ho imparato a considerare la cultura come luogo non narcisistico né autoritario ma vivo, serio, rigoroso. Il nostro primo gruppo teatrale, chiamato Falso Movimento come il film di Wim Wenders, è nato al liceo: e anche nel gruppo attuale, Teatri Uniti, molti sono miei ex compagni di scuola». Nelle lotte politiche, da che parte stava? «Da ragazzo presi la tessera della Federazione giovanile comunista, ma durò pochissimo: due nostri amici sorpresi a fumare uno spinello vennero sospesi dalla Fgci, e tutto il nostro gruppo stracciò la tessera per protesta. Sono un elettore di sinistra critico, consapevole che la critica è segno di vitalità e intelligenza: meglio una sinistra che discute d'una sinistra compattata dal centralismo democratico». Il successo è piacevole o allarmante? «Sostanzialmente cerco di non pensarci: il teatro m'ha insegnato le alterne fortune di questo mestiere e poi, stiamo coi piedi per terra, il mio successo non è mai stato così ampio da insospettire: sono applausi di minoranza. Ma capisco che L'amore molesto arriva emotivamente a tanta gente e so d'averlo fatto senza trucchi, pronto a un risultato molto più scontroso, pensando sempre al film e mai al pubblico: allora è vero che si può credere a un modo di comunicare diverso da quello corrente così bugiardo e accattivante, a un modo di comunicare estraneo allo spaventoso senso d'irrealtà che domina ora nel nostro Paese. Questo pensiero mi dà forza, fiducia». Quando si sente fragile, sfiduciato, cosa fa? «Nuoto. Vado alle Stufe di Nerone, una piscina d'acqua termale calda che si vede pure ne L'amore molesto. Lì si può nuotare anche di notte, e nuotando non pensare a nulla: è bellissimo». Lietta Tomabuoni In gara con «L'amore molesto». Pubblico e critica lo applaudono «Ma il mio è un successo di minoranza» ERO ore ico no un za» MA lo di doio e ista belone, ario a un le la es è e: a tocnime atori Parla