ADESSO LA RUSSIA RISCHIA LA FINE DELLA JUGOSLAVIA di Enzo Bianchi

ADESSO LA RUSSIA RISCHIA LA FINE DELLA JUGOSLAVIA ADESSO LA RUSSIA RISCHIA LA FINE DELLA JUGOSLAVIA Boffa e il collasso deWUrss. da Krusciov a Gorbaciov / testi sacri secondo Bonanate te alto da consegnare nelle mani di Gorbaciov un Paese ormai in ginocchio, ormai «irriformabile», ormai incapace di risollevarsi dalla crisi senza precipitare nel collasso. Semmai si potrebbe andare anche più indietro nel tempo: non alla fine dell'esperienza kruscioviana, ma al suo inizio. Fu la fine del terrore staliniano, il XX Congresso ta di Krusciov, l'Unione Sovietica perdeva l'ultimo treno che le avrebbe consentito di restare al passo con il mondo. I vent'anni successivi, quelli che sarebbero stati chiamati della «stagnazione», le permisero di competere nella grande guerra fredda con l'Occidente, fino a raggiungere la parità strategica, ma a un prezzo talmen¬ del Pcus, a segnare la condanna finale del sistema sovietico. Risalgono infatti a quel 1956 i primi segnali di incrinatura, divenuti sempre più prefondi con il passare del tempo. Gli indicatori principali dell'economia sovietica cominciano inesorabilmente a cadere, piano quinquennale dopo piano quinquennale, proprio a partire da quella data. Senza il terrore e il lavoro coatto quell'economia pianificata non poteva vivere. In ogni caso anche per Krusciov, come per Gorbaciov - scrive Boffa •, valse la regola del riformatore russo che viene abbattuto tanto dai suoi avversari quanto dai suoi seguaci. E l'attuale «crisi non finita» è di fatto la storia delle illusioni dell'intelligencija russa, ancora una volta prona nell'imitazione dell'Occidente, ma di un Occidente anch'esso immaginario, o meglio visto da lontano, senza conoscerlo nelle sue regole e nei suoi drammi. Valga per tutto il resto la polemica con la tesi - che va per la maggiore tra gl'intellettuali russi e che serve a giustificare oggi gli effetti di una riforma economica perfino più incompetente che crudele - secondo cui «il capitalismo è sempre stato criminale». «Neanche la più volgare propaganda comunista era mai arrivata a tanto», scrive Boffa. Il libro si conclude con una previsione pessimistica, anche se non necessariamente «catastrofista». L'Urss è scomparsa. Forse era inevitabile che ciò accadesse. Ma non era inevitabile che accadesse in quel modo. E la sua fine pesa come una «tara» insostenibile sul nuovo Stato russo. La nostalgia dell'Urss resta infatti potente ed è addirittura in crescita costante dal 1992 ad oggi. Solo che - ed è il dramma carico di inquietanti presagi del nazionalismo russo - la ricomposizione di una nuova Unione sembra oggi affidata solo al revival dell'idea imperiale. Da qui i pericoli per tutti. «La lezione che ci viene dallo smembramento dell'ex Jugoslavia - scrive Boffa - dovrebbe pure servire a qualcosa. Non si può non essere colpiti dall'imprevidenza con cui tutti sono stati testimoiù - e qualcuno anche attore partecipe del dramma, anch'esso non inevitabile, che all'inizio del decennio '90 ha posto fine alla convivenza pacifica degli slavi del Sud. Le lacrime, le giaculatorie, le grida di sdegno con cui sono stati accompagnati i successivi orrori non servono certo ad assolvere le complicità, attive o passive, o anche solo le miopie, che hanno favorito e consentito la distruzione della Jugoslavia». Se si continua a ripetere l'errore, anche con la Russia, potremmo tutti accorgerci presto che la prospettiva che abbiamo di fronte è quella di essere tutti perdenti. La storia, infatti, è un dannato gioco dove non sempre e non necessariamente, alla fine, c'è un vincitore. Giuseppe Boffa Dall'Urss alla Russia Storia di una crisi non finita Laterza, pp. 422. L. 35.000 VIVIAMO ormai in una stagione nuova, in cui ciascuno è pressantemente invitato dalle circostanze a diventare competente in complessità, esperto in diversità, capace di incontrare e di comunicare con uomini e donne che vengono da altre esperienze». Così scrivevo nella mia prefazione a Mai senza l'altro di Michel de Certeau. Non posso quindi che rallegrarmi per la pubblicazione di testi come Bibbia e Corano. I testi sacri confrontati di Ugo Bonanate. Con la competenza dello studioso di storia religiosa e il coinvolgimento appassionato che lo contraddistingue (si vedano anche il saggio Nascita di una religione. Le origini del cristianesimo, sempre Bollati Boringhieri, e il romanzo Ascolta, Israele, Lindau), Bonanate vuole qui offrire semplicemente una «sinossi» di testi della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento cristiano e del Corano per «chiarire ciò che da un punto di vista sociologico questi libri rappresentano per ebraismo, cristianesimo e islam» e cosi consentire una più approfondita conoscenza reciproca. Come correttamente segnalato nella prefazione, il lavoro dell'autore si limita a una «scelta comparativa» di testi - e quindi, come ogni scelta, limitata e opinabile - e a brevissime, davvero essenziali, connessioni tra un testo sacro e l'altro. Il tutto preceduto da un'introduzione che ragguaglia il lettore su origini e contenuto dei tre testi sacri presi in esame. Avendo l'autore deciso, assumendosene i rischi, di far parlare unicamente i testi, e di trascurare la luce interpretativa che le tradizioni successive e la vita stessa dei credenti nelle tre grandi religioni monoteistiche hanno gettato e gettano sui loro testi sacri, diventa allora indispensabile chiarire quali sono questi testi e come si sono formati. In sostanza, se ci si affida solamente ai testi «canonici» è fondamentale essere estremamente precisi sul «canone», la regola che ha determinato l'appartenenza o meno di un'opera all'insieme «canonico». Ed è qui che ci sembra di ravvisare i limiti maggiori dell'opera. L'introduzione infatti, soprattutto in quanto concerne l'ebraismo, appare sovente imprecisa (a p. 17 non Abramo ma Giuseppe «portò il suo popolo in Egitto» dato che lui e i suoi undici fratelli, come il loro padre Giacobbe, nacquero in Canaan e non in Egitto; a p. 19 Gerusalemme fu conquistata da Davide e non «fondata prima di tutte» le grandi città da parte delle dodici tribù d'Israele; a p. 20 Amos, Osea e Michea sono tre dei «cosiddetti dodici profeti minori» e non dei singoli profeti a parte), poco attenta alla sensibilità ebraica (nomina regolarmente il tetragramma impronunciabile di JHWH; chiama sempre e anche in riferimento all'oggi «Palestina» il territorio dell'attuale Stato d'Israele; dimentica l'ebraismo quando afferma che «cristianesimo e islam, religioni del libro, furono entrambe inizialmente religioni della parola» - p. 36 -, fino a lasciarsi sfuggire un improbabile «giudaismo di Abramo, Isacco e Giacobbe» - p. 120 - che fa a pugni con quanto asserito a p. 17 sulla diffe¬ Giulietta Chiesa renza tra «ebraismo» e «giudaismo») e soprattutto non ci sembra chiarire granché riguardo all'origine della Bibbia e del Nuovo Testamento così come li possediamo. Bonanate infatti accenna solo di sfuggita - e solo a proposito della numerazione dei Salmi - a un particolare fondamentale di «canone» delle Scritture: per gli autori del Nuovo Testamento e per le prime generazioni cristiane i libri che componevano l'Antico Testamento erano quelli presenti nella traduzione greca detta dei LXX (opera di ebrei di Alessandria nel Hill secolo a.C.) e non solo quelli esistenti in ebraico e fissati come «canonici» dagli ebrei al «concilio» di Javné nel 90 d.C. In particolare appare tutt'altro che marginale quando si conoscono le implicanze messianiche e cristologiche di molte di queste «varianti» o aggiunte greche (i cosiddetti libri deuterocanonici). E comunque non si possono citare brani appartenenti a questa versione e assenti nella bibbia ebraica come «fonti» del pensiero ebraico senza prevenire il lettore (cf. il profeta Baruch citato a p. 200 e 213 o il Secondo Libro dei Maccabei a p. 231). Ci sembra ignorato non solo il dato che l'ermeneutica biblica - sia ebraica che cristiana - non può prescindere dalla vita e dalla storia del popolo che ascolta e legge la Parola contenuta nel Libro, ma anche l'immanenza esistente tra bibbia e popolo: quest'ultimo risconosce nel Libro un testo che lo convoca, ma nello stesso tempo il Libro è frutto di quel popolo riunito in assemblea. Tra l'altro questo dato non è per nulla estraneo alla stessa tradizione islamica. Da un lato infatti un musulmano non dirà mai «il Corano dice che...», ma affermerà: «Dio dice nel Corano...» perché considera che il Corano è la raccolta dei «detti» divini destinati a tutta l'umanità e comunicati miracolosamente sotto forma di versetti nella loro sostanza ultima al profeta Maometto; ma d'altro lato si ritrovano a proposito del Corano le tre funzioni essenziali di ogni «predicazione»: rituale, istituzionale e comunitaria. Il Corano è un libro sacro destinato a una lettura profondamente ritualizzata, a una recita regolata con precisione che costituisce il dispositivo centrale della preghiera pubblica musulmana. Il messaggio coranico è poi istituzione perché, essendo Dio stesso che parla, da esso derivano le nonne e i valori che regolano la vita della comunità islamica. Infine il Corano è anche il libro che media l'identità comunitaria. Queste mie osservazioni non vogliono tuttavia nulla togliere ma, anzi, sottolineare con forza il grande merito del libro: permettere al lettore medio un serio e «oggettivo» approccio alle tre grandi religioni monoteistiche, nel superamento di pregiudizi e nell'ascolto di ciò che l'altro ritiene come verità rivelata. Enzo Bianchi Ugo Bonanate Bibbia e Corano I testi sacri confrontati Rollati Boringhieri, pp. 272. L. 35.000