La cacciatrice di ebrei perduti

La calciatrice di ebrei perduti La calciatrice di ebrei perduti Una vita per scoprire i «bambini della Shoah» LA MISSIONE DI LEAH CTEL AVIV OME doveva essere rotonda Leali Balindt, principessina maliziosa e rossa, all'età di 3 anni, a Ostrowitz, prima che per lei si aprisse, 54 anni fa, quel buco nero da cui e risalita portentosamente tirandosi dietro quasi a forza un esercito di «bambini» (lei ancora li chiama così) dell'Olocausto. La sua pelle è tirata e fresca, la sua frenesia ò abbigliata di veli colorati, gli occhi sono truccati, la bocca un poco a cuore. Ieri sera ha acceso una delle fiaccole che in Israele solo le persone veramente conficcate nel cuore ancora sanguinante della Shoah accendono ogni anno a Gerusalemme, «Bambini dell'Olocausto» non vuol dire bambini morti nell'Olocausto; vuol dire invece, come dall'etimo, bambino partorito dall'Olocausto, senza babbo né mamma che non sia quel gomitolo di buio e di abbandono. Accadeva che in una mattina in cui la realtà teneva più d'appresso il fiato sul collo agli ebrei ormai condannati a morte, i genitori disperati tentassero l'estrema carta della salvezza per i loro piccoli: il ripudio, l'abbandono fisico. Alcuni, già sui treni diretti ad Auschwitz oppure a Sobibor o verso gli altri campi di sterminio, scagliavano a volte i loro piccoli dai pertugi del vagone, giù nelle scalpate lungo il treno in corsa, sperando che qualcuno, un contadino, un prete, li raccogliesse e li nascondesse. E questo è spesso accaduto. Altri li affidavano ad amici, a cameriere, a contadini; molti li consegnavano alla pietà dei conventi. Per tutta la durata della guerra, nel migliore dei casi questi bambini persero la loro fisionomia di nascita e acquisirono un'altra identità, scordando il volto della madre e del padre e lo «Shcmà Israel» (la preghiera fondamentale dell'ebreo) per imparare l'Ave Maria in polacco. Poi, alla fine della guerra, alcuni furono riconsegnati da quei buoni religiosi alle organizzazioni ebraiche, perché restituissero un'identità a quei bambini ormai convinti di essere cattolici. Spesso non fu possibile: queste persone sono rimaste ebree, ma senza nome e senza data di nascita, molti emigrarono in Israele in seno alle organizzazioni giovanili. Altri rimasero cattolici senza sapere, fino a ora, di essere ebrei, finché qualche genitore morente gli ha detto d'un tratto: «Guarda tu non sei quello che credi di essere». Leali Balindt fu messa fuori del ghetto di Varsavia, dove i suoi erano stati convogliati, da un padre proprietario di una fabbrica di mobili e da una madre che essa ricorda «molto bella, molto elegante». Passò dalle mani del contabile di casa, cui era stata promessa metà della fortuna se avesse salvato la bambina, a un monastero di suore: «Dal monastero vidi la luce rossa del ghetto in fiamme. "Dio e in collera", mi spiegarono le suore. Mia madre, mentre mio padre era stato deportato, veniva ogni tanto a trovarmi con mezzo pane bianco in regalo. Poi il contabile vendette mia madre ai nazisti». La bella signora col pane bianco scomparve dal cortile del monastero. Più avanti, Leali, dopo la guerra, fu consegnata dalle suore che l'avevano nascosta a un orfanotrofio ebraico: «Di là partii per Israele, dove trovai mia zia che mi ha allevato e restituito la salute mentale e l'identità: l'ha fatto con piccole foto ingiallite della mamma, con oggetti, con dei suoni dei nomi di città e di strade, con odori di cibo. Nel frattempo mio padre è resuscitato da Auschwitz ed ò venuto anch'egli in Israele. Solo la vita in Israele mi ha rieducato pienamente: il matrimonio fortunato con un avvocato, tre figli, una nipotina... E poi, una volta guarita, ho sentito il bisogno di andare in Polonia, di rivedere il mio monastero, lo mio suore. Là mi sono resa conto che la mia era una storia collettiva, che non avevo il diritto di tenermela solo per me, che c'erano quelli a cui era andata molto peggio, cui non era rimasto attaccato addosso neppure un nome, un vestitino... E ho cominciato a cercarli». Leali dapprima si è messa in contatto con un gruppo di «bambini» come lei, che già si era formato in America; poi ha cercato le organizzazioni polacche, per- | sonaggio per personaggio, una | specie di comunità ebraica nascosta sorta dalle ceneri di un passato sconosciuto. Infine, j mentre cominciavano a farlosi attorno le domande di tanti che non sapevano niente di se stessi ha trovato, come lei dice, «una miniera d'oro di documenti»: infatti gli orfanotrofi ebraici scrissero tutto quella che sapevano dei piccoli relitti umani che venivano loro recapitati: «aveva in mano una bambolina»; «ricorda che una voce femminile da piccolo lo chiamava Moshele». Leali si è dedicata a risolvere i casi dei bambini nati fra il '36 e il '45, ed ha finora risolto 26 problemi di identità. Per esempio, è recente il caso di David Zander che si ricordava solo un nomignolo, «Waldek». Ed era disperato e certo di non poter venire a capo della sua identità fino alla fine dei suoi giorni. Con pazienza infinita Leali ha ritrovato quel nomignolo su un cartoncino conservato nel kibbutz Lahomei Ha Ghettaot: vi si parla di un Waldek figlio di un David e di una Miriam periti nell'Olocausto, che avevano un orto e un cavallo vicino a Lodz. Il bambino era nato in via Joronskego al numero 45, ed era stato affidato disperatamente a un'evangelista di nome Genoveva Zander. La donna, nonostante fosse stata torturata dalla Gestapo, aveva protetto il bimbo con tutta se stessa. Waldek, una volta restituito alla comunità degli ebrei, aveva sempre cercato la sua identità sulla scia del falso nome David Zander: «Non aveva mai voluto - racconta Leali - avere un figlio per non trasferirgli la disperazione di quel buco nero: niente memoria, niente provenienza, niente famiglia. Solo og- gi si è fidato di quel nomignolo che gli girava per la testa, è venuto da me, e poi piano piano abbiamo ricomposto il puzzle soprattutto puntando sul nome della strada, Jeronskego, che ballava nella sua memoria. Oggi è un uomo rinato, la sua felicità ò per me la più grande ricompensa. Tutte le persone che ritrovano la propria identità sono rinate, cos'è la vita se non un chiederci continuamente chi siamo e da dove veniamo, quanto può un'immagine, un orto con un cavallo, e quanto può un nome, almeno il nome, della madre di cui non hai mai conosciuto il volto». Anche un prete di Lublino, Romuald Vashkinor, racconta Leali, ha scoperto recentemente di essere ebreo, e ha ricostruito piano piano i passi della sua mamma, l'affidamento a una famiglia cristiana che l'ha amato teneramente, e che «vendette la mucca per comprargli una chitarra, per tenerlo su, per consolarlo». Oliando ò stata quasi per morire la sua mamma cristiana gli ha detto: «Tu sci ebreo, e hai anche avuto un fratello ucciso dagli ucraini». Romuald è venuto in Israele e ha celebrato finalmente il Kaddish, la preghiera che i figli devono dire alla morte dei genitori, insieme con suo zio, un ebreo molto pio che vive a Natania. Ha detto il Kaddish ànI che per la sua mamma cattolica, I e ha recitato le preghiere crisiiaI ne per la sua mamma ebrea uccisa dai nazisti. Tutto questo doI po che Leali lo aveva aiutalo a j recuperare la sua identità. Ogni giorno per Leali e un'avventura: il telefono squilla e di là dal filo non le chiedono «chi sei?» ma «chi sono?». Fiamma Nirenstein Nella cintura di Tel Aviv e a Jaffa due strade dedicate alla memoria dell'industriale tedesco Oskar Schindler Un giornale economico «Le banche svizzere si sono impossessate di 6 miliardi di dollari depositati dagli ebrei» Automobilisti fermi al suono delle sirene Un superstite di fronte alla sua foto a Buchenwald e Schindler