Vallone, scampato due volte ai tedeschi e alla pleurite

Rapporti con gli Alleati e attendismo, due temi strumentalizzati ma ancora aperti QUEL GIORNO L'ATTORE RICORDA Vallone, scampato due volte ai tedeschi e alla pleurite rite ITORINO L 25 aprile? Io sono stato liberato due volte - ricorda Raf Vallone -. Ero ricoverato a Sondalo, per una pleucontratta durante un'azione partigiana. E ho festeggiato la Liberazione in sanatorio: dai tedeschi e dalla malattia». L'attore ha oggi 77 anni, il mese scorso ha deciso di lasciare per sempre il teatro, dopo l'ultima, stressante tournée. Ma quei giorni di cinquant'anni fa sono sempre lì, con i nomi dei suoi compagni, molti scomparsi, alcuni uccisi, tutti legati alla sua storia dallo stesso filo. Vallone era già stato un popolare calciatore (mezz'ala destra del Torino, prima di Loik) e sarebbe diventato un buon giornalista, critico d'arte, critico teatrale, prima di scoprire la vocazione per il cinema. Ma quel lungo, drammatico intermezzo della lotta antinazista rimane l'episodio decisivo della sua vita. Per raccontarcelo ha voluto scegliere un ristorante in riva al Po, di quelli che lui ama, nei suoi periodici ritorni a Torino («E' sempre la mia città»). La gamba dell'attore è stanca, non si è più ripresa da un incidente per un tuffo finito male su un set cinematografico; il giudizio pronto, la memoria sicura. Non c'è solo nostalgia, nel ricordo. C'è il senso di una Fede, in cui tanti hanno creduto; e lui, con gli altri. «Nella Resistenza mi aveva introdotto Vincenzo Ciaffi, il latinista. E' stato una delle figure più importanti nell'antifascismo torinese, mi spiace che oggi sia così poco ricordato». Si incontrarono a Porta Nuova, sotto i portici di piazza Carlo Felice, davanti a una bancarella di libri. «Io avevo chiesto un libro di Arturo Labriola. Lì c'era un signore che mi guardava, compiaciuto. La nostra amicizia è nata così. Eravamo in periodo clandestino, ci si guardava negli occhi per riconoscerci». Ciaffi era già professore universitario, Vallone si era laureato da poco in giurisprudenza, si portava ancora addosso la fama del giovane che si era affermato sui campi di gioco, non sempre vantaggiosa, per il mondo accademico. «Il mio professore di scienza delle finanze era Luigi Einaudi. Mi diceva: "Tu sei un bravo calciatore, me lo dicono. Ma come economista sei un vero calciatore"». Con lo studioso di letteratura latina, appassionato di teatro, andò diversamente. E quel libro di Labriola aiutava a capire tante cose. «Lui era nel Partito d'Azione, invitò anche me alle riunioni che si tenevano in casa di Carlo Mussa Ivaldi. Andavamo tutti lì a cospirare. C'erano Giorgio Diena, Guido Sebòrga, Oscar Navarro, Giorgio Segre, Silvia Pons, che fu poi uccisa dalle SS, e altri». Ha conosciuto anche Bobbio, Galante Garrone, in quel periodo? «No. Ci si conosceva solo a piccoli gruppi, bisognava difendere il segreto». In compenso avevano le idee molto chiare, propositi di rifare il móndo, che si scambiavano l'un l'altro. «Sognavamo l'utopia, la nuova società, l'uomo nuovo. Ricordo una volta, eravamo usciti dalla casa di Giorgio Diena, alle due di notte. E ci stupivamo che non fosse ancora scoppiata la rivoluzione. Erano anni di fede che rimpiango: si credeva ciecamente in ciò che facevamo». Il giovane cospiratore, che conosceva così bene l'arte del dribbling sui campi di football, deve aver fatto qualche mossa avventata al di là della linea bianca. E assai presto, nella casa dove viveva con la famiglia, si è visto arrivare i tedeschi. «Eravamo sempre attaccati a Radio Londra. Quando hanno sfondato la porta di via Bianzè 19, notificata come possibile covo di partigiani, io mi sono nascosto in un finto armadio di casa, dove ho passato tutto il tempo della perquisizione ascoltando Mozart. I tedeschi avevano trovato i sei dischi della sinfonia Jupiter, l'hanno messa sul grammofono. E io ero lì dietro, a sentire. Finché se ne sono andati». . Nessuna musica di Mozart lo salvò dal carcere durante la sua prima missione politica. «Dovevo prendere contatto con un certo Bermeli, comunista militante, per rendere più omogenea l'opposizione. Il mio messaggio, prima che a lui, era già arrivato all'Ovra». Fu liberato dopo pochi giorni, ritornò in cella dopo pochi mesi. Lo avevano mandato a Como, per stabilire collegamenti con le brigate partigiane della zona. Lo sorpresero in un'osteria, finì in un brutto sotterraneo, senza finestre, dove i prigionieri politici venivano trattati senza pietà. «Il questore di Como era un carnefice, è stato giustiziato dopo la Liberazione. Riuscii a fuggire durante un trasferimento, grazie a un commissario di polizia: mi fece capire che l'agente di scorta non aveva armi addosso». Ma avevano armi, e molte, le SS dei dintorni, che videro quel prigioniero in fuga, e concentrarono il fuoco su di lui. «Mi buttai nel lago di Como, rimasi circa tre ore nell'acqua; finché non smisero di sparare». Soltanto vari anni dopo la fine della guerra Vallone scoprì per caso di essere stato salvato da un gruppo di partigiani che avevano visto tutto, e avevano attaccato i tedeschi per liberarlo. Salvo, e malato. Tornò a Torino in condizioni precarie, e già lo aspettava un'altra missione. Il la- tinista che lo aveva scoperto davanti a una bancarella aveva intuito in lui il futuro attore e lo propose per l'incarico più rischioso, ai microfoni della radio. «Ciaffi aveva deciso di farmi introdurre nell'Eiar repubblichina, con un programma letterario, di un'audacia incredibile, che cominciava dal più antifascista dei nostri poeti, Eugenio Montale. Alcune frasi, nel testo, dovevano servire come indicazio- ne ai partigiani». E non c'erano solo messaggi da trasmettere, in quell'incarico. «Io dovevo entrare alla radio per conoscerne i misteri e per contattare i tecnici: nel caso i partigiani avessero occupato l'Eiar dovevo contare sulla loro collaborazione. Era un'impresa. I) palazzo di via Arsenale era recintato tutto dal filo spinato». Ma la malattia avanzava, l'impresa dovette essere interrotta. «Dall'avventura del lago avevo contratto una pleurite, che a Torino curarono come tifo. E la pleurite si trasformò in tubercolosi galoppante, avevo un buco nel polmone, stavo per morire». Lo salvò un medico, Giovanni Rubino, legato anche lui alla Resistenza; e rimasto, da allora, il suo più fedele amico torinese. «Ha affittato una macchina scassatissima e mi ha portato a Sondalo. Prima di tutto perché era un sanatorio. E poi perché il direttore era il fratello di Ingrao: che naturalmente, con le sue idee, aveva ospitato parecchie persone sospette. Io ero una di quelle». Quando Vallone arrivò lassù, era in condizioni disperate. «Mentre mi portavano sulla lettiga, sentii un infermiere che diceva in corridoio: "State buoni, perché il 305 sta tirando le cuoia"». Il 305 era lui, naturalmente. Gli ci volle un po' di tempo per superare lo choc di quella frase; come per superare la fase acuta della malattia. Mentre la guerra fuori continuava, arrivavano segnali di una lotta che si andava avvicinando. «C'era la vox populi che correva. Quella era zona partigiana, e noi eravamo informati sui propositi dei repubblichini, che stavano preparando un'evasione in Svizzera, attraverso la Valtellina». Quale vita facevate, in quelle condizioni? «Vita da malati, come nella Montagna incantata. Si ricorda Giovanni Castorp? Quella, era la nostra vita. Sedie a sdraio, coperte, sul balcone con qualsiasi tempo, anche se nevicava». Sì, proprio gli stessi particolari della Montagna incantata. E non sono i soli. «C'erano tanti libri, in biblioteca. Il romanzo di Mann io l'ho letto lì. Ricordo ancora oggi il momento dell'incontro fra il protagonista e Claudia Chauchat, la bella russa. Quando lei gli chiede: "Perché mi dai del tu?". E lui: "Perché sei il-tu della mia vita". Io ho letto il libro nei panni di Giovanni Castorp». Finché arrivò il 25 aprile. E quel giorno fu festa, per tutti, nel luogo incantato dove il dottor Behrens si chiamava Ingrao. «Abbiamo appreso la notizia per radio. Il sanatorio era al completo, c'erano ma¬ lati veri ma anche tanti finti, quasi tutti antifascisti, il dottor Ingrao era il più simpatico. Abbiamo brindato con del vino. Io ero pazzo di felicità: perché avevo recuperato il mio fisico e perché festeggiavo la vittoria sul fascismo». Non tornò subito a Torino, per ritrovare i compagni. «Ero guarito, ma non ancora in condizioni di viaggiare». E intanto arrivavano le prime notizie che oscuravano quella felicità. «Non mi è piaciuta l'esposizione del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto; e tante cose che sono seguite. Chi è veramente stato antifascista non può sopportare questi episodi. Mi hanno fatto del male». Rientrato nella sua città, qualche tempo dopo, avrebbe trovato altre ombre. «Avevo avuto una ripresa fisica straordinaria e facevo una fra le più amare esperienze della mia vita. Ho assistito a uno spettacolo rivoltante di voltagabbana, erano diventati tutti antifascisti. C'era come un male oscuro su questa conquista di verginità politica; e infierivano, proprio perché avevano bisogno di dimostrarla. Questi ricercatori di verginità erano tanto più crudeli quanto più erano stati colpevoli». Ma l'uomo che si era gettato nel lago adesso era libero, si gettava nella vita, con i suoi antichi compagni di cospirazione. Cominciava il lavoro all'Unità, con Pavese e Lajolo, l'Unione Culturale con Antonicelli, il teatro, ancora con Vincenzo Ciaffi. Esperienze destinate a dissolversi presto, come il clima in cui erano nate, e a segnarlo per la vita. Quel bicchiere di vino in sanatorio, il primo giorno di libertà, non lo avrebbe dimenticato mai più. Giorgio Calcagno «Nel Lago di Como, tre ore in acqua: finché non smisero di sparare» «E oggi qualcuno prova a legittimare patriotticamente il regime di Salò» -- ••' "/«'«ywAi.j». LAVORATORI GERMAMÀ VrFSClO CONTROL F so. A^yANNI DALLA LIBERAZIONE «Nel Latre orefinchédi spapoi uccisa dalle SS, e altri». Ha conosciuto anche Bobbio, Galante Garrone, in quel periodo? «No. Ci si conosceva solo a piccoli Due immagini di Raf Vallone A destra, un gruppo di lavoratori italiani in partenza per la Germania r 1-