Lo scrittore apprendista fotografo E Verga mise le cose a fuoco
Lo scrittore apprendista fotografo Lo scrittore apprendista fotografo E Verga mise le cose a fuoco ERAGUSA IAMO nel 1839, nella Roma dei «malincontri» e delle «infezioni miasmatiche»: un uomo accidioso e disincantato, «malconcio di testa e di gambe, un cerotto», che lavora come censore presso il pontefice Gregorio XVI, e cioè l'insospettato Gioachino Belli, intuisce la potenzialità di un nuovo «specifico» che viene di Francia. Ne scrive folgorato sul suo voluminoso Zibaldone, che lascerà in eredità didattica al figlio. «Da due o tre mesi in qua i giornali e le accademie, tratto tratto di altro non risuonano che della maravigliosa scoperta del sig. Daguerre parigino, scoperta per mezzo della quale non più l'uomo, ma la natura stessa è fatta di sé medesima pittrice, etol semplice apparato conosciuto sotto il nome di camera oscura, esponendolo ai raggi di un limpido sole la prospettiva abbracciata dal campo della lente viene in poco d'ora a tratteggiarsi nitida, in chiaro scuro, sopra questa carta misteriosa». Le chiamava «lucigrafie», queste carte prodigiose, il grande satirico dei Sonetti: il primo mtellettuale, probabilmente, ad occuparsi di fotografia. Poi sarebbero venuti Hugo, D'Annunzio, Zola, Gautier, Rimbaud, ma soprattutto tre siciliani: Capuana, Verga, De Roberto. Capuana fu il vero pioniere. Già entomologo, raccoglitore di canzoni popolari, archeologo provetto ed «acquafortista» si premurò di fondare addirittura un Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Prof. Luigi Capuana, come campeggiava sull'insegna. E: «Ah! s'io fossi romanziere come sono fotografo» scriveva convinto al suo amico e «discepolo in fotografia» Giovanni Verga, che pareva rimproverargli lo sciupìo «di un capitale di tempo e di ingegno». Inviava cartoline dai suoi negativi, studiava il passaggio dal collodio umido a quello secco, sperimentava la stroboscopia o la tecnica della carta metallotipica, era un vero ricercatore sul campo. A Roma aiutò fotograficamente Zola che cercava documentazioni per il suo volume Rome, ma si ritraggono anche a vicenda. Capuana si divertiva a giocare. Come quando documenta gli ectoplasmi delie sue sedute spiritiche, o fa la prova generale della propria morte, parodiando all'autoscatto scene d'estremo congedo (e D'Annunzio lo ringrazia in versi: «Esulta amico forte / e non ti disperar. / L'aspetto tuo di morte / par vita secolar»). Ma attribuisce anche alla fotografia una potenza rammemorativa molto forte: come quando fa riesumare una contadinclla morta da pochi giorni, per poter donare ai genitori un ricordo. Il suo «apprendista» Verga ha, probabilmente, una visione molto meno sacrale. Come dimostra anche la finalmente completa esposizione dei suoi quasi cinquecento scatti, all'Ex-Macello di Ragusa. Un'occasione preziosa per capire il rapporto con l'immagine di questo maestro del realismo. Che non ama mettere in posa, come l'amico Capuana; che non ha lo stesso talento dell'esattezza dell'amico De Roberto. Lui stralcia veramente dei mementi di realtà e immediatezza, spesso «guasti» o «malriusciti», come scrive sulla scatola dei negativi sovraesposti, «malfissati». Una veduta sbilenca dal calesse in corsa. Giacosa seduto gambe larghe come Ladra. Gli spauriti contadini del suo podere; solo Pascarella figura elegantissimo, nella passeggiata sull'Etna. Dalle Lettere d'Amore alle sue predilette Dina e Paolina, traspare l'uso molto intimista ed affettivo che ne faceva: «Cara, che mi guardi da quella fotografia! E ti lagni che ne semini la casa? Vuoi sapere che cosa ne pensano i miei di quelle fotografie? Ma io non lo so e non glielo domando». Oppure: «Ieri ti ho spedito la fotografia che desideri - un maccherone, e quelle dei ragazzi che ho potuto trovare tra i miei tentativi fotografici... ma il piccolo Marco è irriconoscibile, perché fuori fuoco e sembra ammalato di elefantiasi, tanto è gonfio e contraffatto». Nonostante Sciascia non ne fosse convinto («Nulla di più impersonale, di più vero, di più "verista" della fotografia: ma credo non ci abbiano pensato tanto, presi com'erano dal "diletto", dal "gioco"») qualcosa della poetica verista rimane in questi scatti agri e contro-estetici. Anche se «la loro camera oscura era la memoria, quando scrivevano di Sicilia a Milano o Roma», è provato Verga abbia mandato alcuni di questi scatti di scene folkloriche a Ferraguti che doveva illustrargli Vita nei Campi o a Monleone, che stava allestendo Cavalleria Rusticana. Verissimi documenti. Marco Vallora Come Capuana e De Roberto anche Verga fu un pioniere dell'arte fotografica: quasi 500 scatti dello scrittore ora in mostra a Ragusa, Qui accanto la famiglia Verga in posa: Giovanni a sinistra, con la madre, le sorelle Rosa e Teresa, il fratello Mario
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