PADRE & FIGLIA NELLA STORIA

PADRE & FIGLIA NELLA STORIA PADRE & FIGLIA NELLA STORIA Il Padre, nella storia romana, (come riporta Eva Cantarella) così come nei racconti mitici dell'antica Grecia (analizzati da Ezio Pellizer) è colui che esercita la patria potestas, e il potere economico che di solito rappresenta. Ha assoluto diritto di vita e di morte sui propri congiunti, incarna cioè la Norma, esercitando il suo potere nella difesa dell'onore e della salute pubblica, per i quali è disposto a sacrificare la vita dei propri figli. Tuttavia, aggiunge Eva Cantarella, non è escluso che ci potesse essere maggiore spazio per gli affetti nel rapporto con le figlie piuttosto che con i figli, con i quali il rapporto era decisamente più conflittuale. Dall'altra parte, la Figlia è la vittima per eccellenza; passiva e introversa, è fisicamente sempre rinchiusa perché la sua purezza, che ha valore di «merce di scambio» di fondamentale importanza nel contratto matrimoniale, venga intaccata il più tardi possibile. Inoltre, paga spesso con la morte anche se le sue colpe sono solo supposte, perché incarna alla perfezione il ruolo «privilegiato» di oggetto sacrificale. Alla figha, in quest'ordine di idee, non resta altro che obbedire in silenzio alle decisioni paterne, tanto ingiuste quanto immodificabili. Il conflitto, invece, si scatena inevitabilmente (è Heidi Bitter a parlare, a proposito del dramma borghese tedesco della seconda metà del Settecento) quando «l'arrivo dall'esterno di un uomo suscita nella figlia un sentimento amoroso individualistico, segnato dalla sofferenza erotica, che viene ricambiato e che non viene rispettato dal padre», quando cioè in quel rapporto così stretto, intimo ed esclusivo tra padre e figlia, si viene a fare i conti con il desiderio sia della figlia (rivolto all'ester¬ apclu fave staccare da quella figura autorevole, per quanto attraente ed affa\ scinante, perché f f no) che, molto più subdolamente, dei padre per la figlia (rivolto all'interno del gruppo familiare). Lo stesso Freud in quanto padre, nello studiare la storia shakespeariana di Cordelia incappò, secondo Amie Friedrich, in una interessante «rimozione» degli aspetti più plateali del problema, mentre scrittrici come Ingeborg Bachmann ed Elfriede Czurda utilizzano nel loro lavoro il motivo dell'incesto sia come «valore simbolico della trasgressione assoluta» (Rita Svandrilik) ma anche come espressione dell'incapacità di «accettare un rapporto con l'Altro in cui l'alterità sia rispettata». E che dire di quelle figlie di artisti del XVIII secolo (studiate da Viktoria Schmidt-Lisenhoff) che scelgono a loro volta di diventare artiste seguendo le orme del padre, dal quale sono state amorevolmente educate secondo le norme di pedagogia femminile luministiche, che però solo raramente riescono a superare la soglia del dilettantismo? La loro attività creativa è stata «imbrigliata dal controllo del padre» o agevolata? Difficile dirlo. Al contrario, Delfina Dolza sottolinea come il successo, raggiunto dalla maggior parte di quelle donne che svolsero la professione di intellettuale e scienziata alla fine del secolo scorso (da Marie Curie all'astronoma americana Maria Mitchell), fosse dovuto solo alla indispensabile influenza paterna che, a differenza di quella materna, volta più all'economia domestica e all'educazione dei futuri figli, era di tipo prettamente culturale. Ma giunge sempre, prima o poi, il momento in cui ci si deve staccare da quella figura autorevole, per quanto attraente ed affa\ scinante, perché

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