Quel miracolo firmato Fbi di Vittorio Zucconi

Quel miracolo firmato Fbi Quel miracolo firmato Fbi Il film delle 48 ore che portarono all'arresto UNA TRAGEDIA AMERICANA Vo, OKLAHOMA CITY OGLIO andare là sotto, subito», disse improvvisamente, come colpito da un'ispirazione divina, l'agente speciale dell'Fbi incaricato delle indagini, Weldon Kennedy. Il cratere era ancora caldo, le strutture di ferro tenere sotto il calore sprigionato dalle due tonnellate di esplosivo. Erano trascorse appena tre ore dall'esplosione delle 9,04 e i pompieri, gli artificieri della 45a Divisione, gli ingegneri del Comune gli risposero che era pazzo, che il cratere era troppo instabile per rischiare l'esplorazione. Ma Kennedy, faccia da questurino da presa, ripete soltanto «la corda, e subito, o vi faccio chiamare da Washington». I pompieri lo legarono, si passarono la fune attorno alla vita, lo calarono nel buco nero di quattro metri per sette aperto nel «punto zero», nell'epicentro dell'esplosione. Kennedy scese lentamente, la torcia elettrica alla mano, e 20 minuti più tardi riaffiorò con un pezzetto di lamiera. «Portatelo subito al laboratorio», ordinò ansimando prima di mettersi alla bocca la mascherina per l'ossigeno. Cominciò così, dal cratere dell'orrendo «big bang» che oggi vedo ormai spento e colmo d'acqua sotto i temporali che stanno rovesciando torrenti di pioggia sull'Oklahoma, il percorso di un'indagine vertiginosa, di un film incredibile che avrebbe portato in 48 ore esatte, fra colpi di fortuna, computer, tecnologia futurista, sceriffi di provincia e semplici coincidenze, all'identificazione e all'arresto dei presunti colpevoli. Cominciò da un confuso, sgranato nastro di videoregistratore che dal palazzo di fronte, la società dei telefoni, aveva individuato un camion a noleggio della società Ryder alle 9, davanti al Palazzo. Cominciò dall'esperienza dell'Fbi, che due anni prima, nell'inchiesta per la bomba ai grattacieli del World Trade Center a New York, aveva imboccato subito la pista giusta partendo da un brandello del furgone usato allora, un frammento che portava inciso un numero di serie. Proprio un pezzo simile, l'involucro del differenziale del camion Ryder, era il frammento che l'agente Kennedy riportò ansimante ed eccitato dal cratere. Sapeva, per quel misto di esperienza e di istinto che fa i grandi poliziotti, che lì stava la chiave della verità. Ma quel che l'agente speciale Weldon Kennedy non poteva sapere, era che la sua preda, l'autista del camion-bomba, stava già in manette a pochi chilometri da lui. E che da quel momento, da quel rottame di ferro sarebbe cominciata fra gli investigatori e il sospetto, fra i cani e la preda, una corsa a tentoni, a distanza e contro il tempo, per ricollegare il frammento con il volto del giovanotto arrestato, Timothy James McVeigh. Saranno quarantott'ore di «moscacieca» giocate, alle fine, sull'orlo dei minuti. Alle 10,30 di quello stesso mercoledì, un'ora e 26 minuti dopo l'esplosione, mentre l'agente del- l'Fbi chiedeva di essere calato nel cratere, un poliziotto della cittadina di Perry in servizio lungo l'autostrada n° 35, novanta km a Nord di Oklahoma City, aveva notato una vecchia Mercury modello Marquis giallina correre a 145 chilometri l'ora, ben oltre il limite di 100, e senza targhe. L'agente, Charles Hangcr, era un superzelante, un tipo che «avrebbe dato la multa anche a sua nonna», come dirà poi il suo capo, lo sceriffo della città di Perry. Non poteva dunque sfuggirgli certo quell'auto senza targa. Si avvicinò alla Mercury, notò immediatamente che sotto una giacca a vento nera e sopra una T-shirt bianca il guidatore portava una fondina ascellare. «Sto guidando da 9 ore», gli disse l'automobilista, ma Hager non si fidò. Estrasse la sua pistola di ordinanza e la puntò contro la tempia del conducente. Non è il caso di correre rischi, nell'Oklahoma dove possedere un arma è ormai più consueto che possedere un pacchetto di sigarette. E l'arma che quell'automobilista teneva nella fondina non era una rivoltellina da signore. Era una Glock, una semiautomatica belga caricata con proiettili a punta cava, per la penetrazione di corazze e giubbotti anti proiettili. Alle 4 del pomeriggio, mentre l'automobilista arrestato sulla «35» era già sotto chiave a Perry, l'agente speciale Weldon Kennedy alzò la testa dal microscopio e disse a voce alta: «Gotcha!», preso. Sul pezzo di lamiera, come ormai su tutte le parti di ricambi auto, per scoraggiare i furti, era inciso un numero di matricola. L'Fbi chiamò il fabbricante, la Delco Ricambi che tre ore più tardi, mentre i chirurghi operavano freneticamente sui 17 bambini feriti, fornì all'Fbi la storia di quel pezzo, un differenziale. Risultava venduto al garage dei fratelli Elliot, affiliati alla Ryder Noleggi, in una cittadina del Kansas chiamata Junction City. Era sera, la sera del primo giorno. Lo sceriffo di Junction City piombò nel garage dei fratelli Elliot seguito a ruota da due agenti dell'Fbi atterrati all'aeroporto municipale. Sì, Bob Elliot il garagista ricordava quel camion e quando lo aveva affittato: due giorni prima, il 17 aprile, a un giovanotto alto, con i capelli corti alla militare, e un volto quadrato, senza cicatrici, accompagnato da un altro uomo coi baffi. Sì, il cliente aveva dato il nome di Tim McVeigh, lo stesso nome che appariva sulla patente emessa nello Stato del Michigan. E sì, aveva ancora il recapito locale che lui aveva lasciato: il Dreamland Motel, il motel dei sogni, e sai che so- gni. La padrona del motel confermò l'identità e la ricostruzione fisica. Arrivarono tre «artisti» specializzati negli identikit. Nella piccola prigione di contea, a Perry, il secondo giorno dopo la bomba, il giovedì 20 aprile, cominciò come sempre. Caffè e uova strapazzate, sbatacchiar di chiavi, bestemmie, colpi di tosse. E il giudice di contea era in ritardo. Quel giorno, il ritardo era particolarmente grave perché l'elenco degli arrestati da incriminare formalmente, entro le 48 ore dall'arresto come vuole la legge, era lunghissimo. «Oggi ne sbrigo 10», disse allo sceriffo. «Ma ne abbiamo undici», rispose lui. «L'altro, domani». L'altro era appunto Tim McVeigh, che se ne stava tranquillo nella tuta arancione dei carcerati che la contea gli aveva fatto indossare. A Oklahoma City erano arrivati gli identikit disegnati nel motel dei sogni, nel Kansas. Nella prigione di Perry, i fax uscirono alle 18 e 30 di giovedì. Lo sceriffo li appese alla bacheca con le puntine da disegno, dimenticandoli in fretta. Lui, il giudice, l'avvocato d'ufficio della contea, gli agenti erano inchiodati davanti al televisore a guardare le fatiche; sempre più inutili dei soccorritori. Ma Kennedy, 90 km lontano, non guardava la tv. «E' lui, il sonofabitch, il gran figlio di puttana, lo sento», digrignava i denti coi suoi colleghi, sempre più sicuro. I testimoni oculari che erano passati prima delle 9 davanti al palazzo esploso avevano riconosciuto l'identikit. Le tracce del camion erano provate, chiarissime. Un benzinaio sulla strada dal Kansas all'Oklahoma, 5 ore di auto, aveva identificato anche lui il guidatore del camion, il giorno 18, nella sua marcia di avvicinamento. Tim si svegliò in cella alle 8 di venerdì 21, dopo una buona notte di sonno, ricordano i suoi carcerieri. Alle 10 e 30, giusto 48 ore dopo l'arresto, il giudice lo avrebbe formalmente incriminato quella mattina, stabilendo la cauzione per la libertà provvisoria: 500 dollari. Poiché basta pagare il 10% della cifra per uscire, in America, quindi 50 dollari, «Mad Bomber» non avrebbe avuto problemi. Quando lo avevano arrestato, nella tasca dei calzoni mimetici, di tipo militare, che aveva addosso, portava 200 dollari in contanti, più che abbastanza. Alle 9 fu portato nell'aula del giudice di contea. Alle 9 e 15 entrò il giudice, di cattivo umore come sempre. Alle 9 e 30 entrò in aula anche l'agente Charles Hanger, il rompiballe, quello che lo aveva arrestato. Hanger aveva visto gli identikit appesi all'ingresso, i capelli a spazzola, il volto quadrato, gli occhi sottili. Fissò l'arrestato. Tornò a studiarlo. Si alzò e confidò allo sceriffo i suoi sospetti. Lo sceriffo era scettico, ina decise di chiamare il numero verde dell'Fbi creato apposta per le indagini sulla bomba: 800-9051514. Ma il numero era occupato. Tremiladuc- ; cento persone avevano telefonato in 24 ore per dare indizi, suggerire piste, dare la caccia ai 2 milioni di dollari, 3 miliardi e mezzo di taglia. Occupato. Occupato. L'orologio del tribunale batteva le 9 e 50, 40 minuti prima delle 10 e 30, ora della liberazione obbligatoria. Tim McVeigh aspettava in silenzio, tranquillo. Finalmente, il telefono rispose. All'altro capo era l'agente Kennedy. Lo sceriffo disse di avere un «sospetto» e ne fece la descrizione. Kennedy rispose subito «tenetelo lì, a qualunque costo». Un elicottero militare, uno Huey, fu fatto venire immediatamente dalla base aerea di Tinker, alle porte di Oklahoma City. Alle 10 atterrava sul tetto dell'edificio dove sta l'Fbi, in centro, e due minuti dopo tornava a decollare con ! Kennedy e i suoi agenti a bordo. : Alzandosi e virando, l'elicottero si piegò e dovette offrire ai suoi passeggeri una visione perfetta del Palazzo sventrato e del cratere dove, 48 ore prima, l'agente si era calato per cercare un pezzo di lamiera. Quando lo Huey si posò sul prato della piazzetta centrale di Perry, erano le 10,15. Appena in tempo. Otto ore più tardi, alle 18 e 45, il bravo ragazzo americano con i capelli a spazzola accusato di aver compiuto la più grande strage terroristica nella storia degli Stati Uniti, usciva in manette dagli uffici della contea di Perry, fra la gente che gli gridava «baby killer», assassino di bambini. Da venerdì sera è rinchiudo nella base militare di Tinker, imputato formalmente di «distinzione dolosa di proprietà pubblica» e di «strage», senza cauzione. L'agente Kennedy ò di nuovo nel suo ufficio per continuare le indagini, in centro, sotto la pioggia torrenziale che scivola sulle rovine fradice é ancora gonfie di morti. Vittorio Zucconi L'agente Kennedy si fece calare nel cratere ancora rovente della bomba e ne uscì con una lamiera del camion usato per la strage Tutto cominciò così Dall'identikit al collegamento con l'uomo fermato sull'autostrada per eccesso di velocità