Pampaloni: libertà e tordi allo spiedo

Pampaloni: libertà e tordi allo spiedo IL MIO 25 APRILE. i ricordi del grande critico: quando la radio annunciò l'insurrezione Pampaloni: libertà e tordi allo spiedo Tutti gli antifascisti a pranzo da don Omero FIRENZE DAL NOSTRO INVIATO «Gioia e delusione, entusiasmo e gusto di cenere»: questo prova oggi Geno Pampaloni a ricordare il 25 aprile di cinquantanni fa. Le immagini e le emozioni di quel giorno ammorbidiscono e aprono alla commozione il viso del critico-scrittore, che ha 77 anni e se ne sta rintanato nella sua villetta di Bagno a Ripoli, a un passo da Firenze, da cui si spazia su un bel paesaggio toscano. Ma affiora anche l'amarezza, perché «i progetti erano allora infiniti, incontenibili, e si sono consumati nella mediocrità generale». Il 25 aprile cominciò come un giorno uguale a tanti altri, in una Grosseto liberata da mesi. Alle cinque del mattino risuonano le campane della chiesa di San Pietro, trema l'abside e trema la parete del salotto nell'appartamento che le è incollato accanto. Su un divanetto si scuote il giovane Geno: «Le pietre sembravano venirmi addosso». Si alza, scende a prendere il pane fresco, lo inzuppa nel caffè e torna a letto a leggere Che ve ne sembra dell'America? di Saroyan. Babbo e mamma dormono ancora. Dopo un po' accende la radio e sente la notizia: il Comitato di Liberazione ha dato l'ordine di insurrezione generale, Mussolini e il fascismo hanno le ore contate. PampaIoni corre di sotto, nello studio del padre mediatore di granaglie, e fra cartocci, scodelle e bilancette sopra i mobili rossi di falso mogano afferra il telefono e chiama gli amici. Si trovano al caffè Martinelli: «Facemmo baldoria mentre la città si riempiva di cori e cortei. Grosseto è stata fascista, ma aveva nelle viscere anche il mito di Randolfo Pacciardi, uno dei leader repubblicani». Pampaloni vola fuori città in bicicletta: in una ventina di minuti mette piede a Istia, vicino all'etnisca Roselle. L'appuntamento è da don Omero, un prete antifascista: «Eravamo in un gruppetto. C'erano i comunisti con Antonio Meocci, presidente del Comitato di Liberazione grossetano, c'erano i cattolici e alcuni del Partito d'Azione, al solito divisi fra chi stava col pei e chi come me era più liberale e non ci voleva stare». Scoppiò una discussione vivacissima. Quale governo per la nuova Italia? Era tutta lì, la questione. «Sembrava tutto finito e non era finito niente ricorda Pampaloni -. I comunisti puntavano, checché ne dicesse Togliatti, su un'egemonia concreta del pei, come il gruppo che aveva dato di più alla Resistenza. Io ero per un accordo polifonico come quello nel Cln, che avesse come punto di riferimento la fine del fascismo e l'assorbimento di certi valori nazionali che il fascismo aveva, sia pure malamente, interpretato. Capivo che se l'egemonia andava al pei, addio nazione: la Russia di allora non era certo la Russia di oggi. «Poco più tardi Leo Valiani a Milano mi dirà: "Se vinceranno i democristiani alle elezioni, li avremo sul gobbo per più di vent'anni". La de era per me il male minore, un partito più malleabile. Il pei era una caserma: non c'era spazio per niente che non fosse non il comunismo ma l'ordine di Stalin. Una sera a Roma eravamo in casa di Niccolò Gallo, comunista mitissimo. Gli domandai: "Il giorno in cui il partito ti ordinasse di fucilarmi, tu mi fucileresti?". Lui allargò le braccia e mormorò: "Sì". Questo era il clima». La discussione da don Omero si risolse in un gran pranzo. Scapparono fuori alcuni tordi: «Preparammo una schidionata con pancetta e fettine di pane. "I fascisti faranno la fine di questi uccellini", dicevano i comunisti». Fu il momento più bello di quella giornata. Nel pomeriggio gli amici tornarono a Grosseto. Sull'entusiasmo scesero le prime nubi, le ansie per il futuro più vicino. Geno Pampaloni si trovava a casa dalla fine del '44: «M'ero stufato della guerra. Ero sotto le armi dal '39 e dall'8 settembre '43 ero volontario: faceva parte di quel contratto morale la possibilità di chiedere il congedo». Aveva anche visto i genitori in una situazione disperata: non avevano quasi più nulla da mangiare. Condivano l'insalata con il pomodoro spremuto. La madre ogni tanto vendeva un vestito del padre per un goccio d'olio. Pampaloni, figlio unico, laureato in Lettere con Luigi Russo, raggranellava qualche soldo facendo supplenze a scuola e traducendo dal latino San Cipriano, «un lavoro che mi aveva procurato Corrado Alvaro». In quel 25 aprile '45 PampaIoni, nell'euforia del mattino, nelle discussioni mentre addentava i tordi da don Omero, negli interrogativi e nel disincanto del pomeriggio, fece i conti con l'intera guerra che finiva. «Io sono uomo di poca guerra», dice Pampaloni. Aveva sparato poco, ma i cinque anni erano tutti lì, mentre pedalava tornando a Grosseto. Quanti momenti, quante emozioni... Ecco le parole del bolognese Pedro quando arrivò l'ordine di sciogliere il plotone: «La guerra dei ragionamenti militari è perduta disse Pedro -. Siamo rimasti noi, con l'affetto, la consolazione di stare uniti». «Viva la Repubblica!», aveva esclamato Pampaloni un giorno del '44 nella tenda sistemata in una caverna sotto la roccia in Abruzzo. Era appena arrivato e guardato con sospetto. «E' dei nostri!», dissero gli altri ufficiali. Si ab¬ bracciarono. L'amico Lo Forte era morto centrato da una bomba di mortaio dentro la sua buca. «Buono come il pane», disse uno dei suoi soldati. Fu tutta l'orazione funebre. A Jesi nell'autunno '44 i contadini erano corsi fuori dai vigneti: «Sono italiani!», gridavano. Racconta Pampaloni: «Ci abbracciavano, piangevano. I ragazzi rubavano le bandiere, le donne ci porgevano i bambini da baciare, i vecchi ci offrivano vino e ci chiamavano figli. Per loro eravamo noi soldati italiani i liberatori». E i volti di Giaime Pintor, di Valentino Gerratana, di Carlo Salinari: erano stati loro a dargli la prima educazione politica nello spaccio buio della caserma di Salerno: «Mi avviarono a una coscienza critica di quello che era stato il fascismo. Loro erano comunisti: io ero avversario di ogni dittatura e non aderii; mi riconobbi noi Partito d'Azione, pur senza iscrivermi: nella fiducia dell'evoluzione democratica de), comunismo sovietico trovai, come il mio amico poeta Sergio Antonielli, la giustificazione della nostra guerra». L'8 settembre l'aveva colto sottotenente in Corsica: «Presidiavamo i monumentini ai caduti perché i patrioti non sostituissero la bandiera italiana con quella francese. Alcuni dei nostri già fiutavano il vento e si rifiutavano di andare. Io non mi sono mai rifiutato. Andavo col mio plotoncino, ci sedevamo, giocavamo a carte. Ci avevano mandato lì, e lì dovevamo stare». La sua scelta era stata di rimanere nell'esercito: «Oggi lo rifarei. Andarmene mi sembrava una vigliaccheria, un gesto dettato da opportunismo e da un pizzico di volgarità morale, una forma minore di gregarismo e pecorume». D'altra parte «fu l'irresponsabile e dissennata assenza e fuga dello Stato ad autorizzare il rompete le righe e a trasformare il. giorno amaro della sconfitta in una sorta di festa nazionale». L'8 settembre è ai suoi occhi «il simbolo del disimpegno». Molti dei guai successivi nascono di lì: «Il mammismo vi ha trovato il suo vivaio, l'assistenzialismo la sua filosofia; e così pure l'abitudine all'alibi morale, a mettere sempre sul conto degli altri anche le nostre responsabi¬ lità; e così pure la generale pretesa all'impunità, che è stata uno dei cardini del nostro vivere sociale». Di quel suo 25 aprile, Pampaloni dice: «Scoprii ancora una volta la mia inattualità». Fu la conferma del suo destino. Pampaloni, ii lettore di Péguy, Gobetti e Camus, l'amico di Silone e Chiaromonte, si riconobbe un «religioso senza religione», un liberale di sinistra guardato con sospetto sia dai cattolici sia dalla stessa sinistra: un'apertura, la sua, forse una ferita, un'inquietudine della coscienza che lo vota al dubbio, alla tolleranza, all'individualità. Oggi si rintraccia un'affinità tra l'emergenza attuale del Paese e la situazione del 25 aprile, la ricostruzione del dopoguerra: la condivide anche Pampaloni? «Non c'è più dignità nazionale. Mi colpì, e arriva ancora a commuovermi, il viaggio di De Gasperi a Parigi con una valigia di fibra tenuta insieme da uno spago: l'Italia povera, stremata dalla guerra, aveva conservato un suo orgoglio di libertà... Il 25 aprile mi appare come il culmine da cui comincia la discesa. Causa principale della decadenza è stata la deleteria collusione tra comunisti e democristiani: invece di sommare le virtù che pure ci sono negli uni e negli altri, hanno sommato i difetti. Insieme hanno sacrificato l'ideologia all'italianità, cioè ai compromessi di una malintesa tolleranza, che non è ciò che manda avanti la storia... C'è oggi una grande confusione. Mi dà la nausea. Avessi trent'anni di meno, andrei in Francia, in America. E' un'Italia che non mi piace, come diceva Prezzolini». Nel 25 aprile del '45 trova un valore positivo anche per l'oggi? «Può essere la festa del riconoscimento reciproco fra gli italiani, di una concordia profonda e non degli abbracci di facciata. E' il coraggio di ricominciare, è un Capodanno». Claudio Altarocca «Comunisti, cattolici e azionisti già divisi sul futuro del Paese» I «Oggi c'è confusione, l'Italia ha perso la dignità nazionale» Grosseto si sveglia inondata di cori e cortei Gli amici si radunano al Caffè Martinelli E' l'ora delle baldorie e delle prime discussioni DALLA LIBERAZIONE I In alto, Geno Pampaloni e un momento della Liberazione Qui accanto, da sinistra, Randolfo Pacciardi, Valiani e Alvaro