«Il bene a volte è noioso» Le insospettabili ricette del «maestro della pace»
«Il bene a volte è noioso» «Il bene a volte è noioso» Le insospettabili ricette del «maestro della pace» ]L mio predecessore, Thupten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, quando morì nel 1933, annunciò chiaramente nel suo testamento che un terribile pericolo sarebbe venuto un giorno dal comunismo. Comprendendo già che non avremmo potuto in alcun modo resistere fisicamente ai nostri grandi vicini, la Cina e l'India, e che bisognava usare un'accorta diplomazia, si rivolse ai nostri vicini più piccoli, il Nepal e il Bhutan». «Per fare loro quale proposta?». «Una sorta di difesa comune: arruolare un esercito, addestrarlo al meglio». Sorride aggiungendo: «Cosa che, fra noi, non è una pratica rigorosa di non violenza». «Come reagirono il Nepal e il Bhutan?». «Non reagirono. Ignorarono semplicemente questa proposta. Ora vedo tutta la portata del presentimento del mio predecessore. Ad esempio, voleva portare a Lhasa giovani della regione del Kham, all'Est - regione dura, poco popolata, vicina alla Cina - e conferire loro il rango di veri tibetani, con un addestramento militare completo. Politicamente, significava vedere molto lontano. Già avanzava l'idea per cui la difesa di una terra debba essere garantita da coloro che occupano questa terra». «Bisogna dunque dare loro armi?». «E' quello che diceva. Quest'uomo avvertiva con grande sensibilità il movimento del mondo intorno a lui. Voleva seguire il cambiamento, non lasciare il proprio Paese indietro, o da parte». «Se questa sua intenzione si fosse concretizzata, vent'anni più tardi il Tibet avrebbe potuto resistere?». «Ne sono convinto. Ma non fu ascoltato. I dignitari non seguivano i suoi ordini. Ecco quelle che chiamiamo le condizioni del karma collettivo, si potrebbe anche dire le circostanze...». (...) Sorride allora per dirmi: «Sì, ma è noto che i buoni sentimenti non suscitano che noia e conducono piano piano al sonno. Talvolta, può essere buona cosa mostrare un crimine». «In che senso?». «Poiché abbiamo in noi una compassione naturale, e questa compassione deve manifestarsi, può essere bene destarla. Una violenza fatta su una persona innocente, ad esempio, può farci indignare, può scandalizzarci, e nel contempo aiutarci a scoprire la nostra compassione». «Tutto dipende dalla risposta del pubblico». Sono un po' stupito di vederlo prendere le difese, da un punto di vista strettamente buddista, di una certa forma di violenza pubblica. Poco prima denunciava al contrario la sofferenza e la morte manifesta degli animali, come se fosse importante non far vedere. Ora, almeno per quanto riguarda la violenza esercitata su esseri umani, sembra mitigare il proprio atteggiamento. Aggiunge: «La televisione, grazie alla sua stessa violenza, può mantenerci in stato di allerta». «Coloro che studiano l'influenza della televisione hanno la tendenza a dire il contrario: che essa non fa che aggravare la nostra indifferenza», «In che modo?». «Perché tutto vi è presentato allo stesso livello di interesse. Ora, mi sembra, il nostro spirito, per essere colpito da un avvenimento per ricordarsene a lungo, deve distinguerlo dagli altri».(...) «Se la violenza porta alla compassione - mi risponde -, è una buona cosa. Se l'accumulo di violenza porta all'indifferenza, è in effetti molto pericoloso». Jean-Claude Carrière
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