Mannoia:mi dimetto da pentito
Il «chimico della mafia» ai giudici di Caltanisetta: «Non sono io a sottrarmi ai miei doveri» Il «chimico della mafia» ai giudici di Caltanisetta: «Non sono io a sottrarmi ai miei doveri» Mannoiq; mi dimetto da pentito «Lo Stato mi ha lasciato troppo solo» PALERMO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Sul fronte dei grandi pentiti si apre una crepa: Francesco Marino Mannoia, dopo quasi sei anni di collaborazione con la giustizia, ha improvvisamente fatto un passo indietro. E ci si domanda oggi se altri dei quasi mille pentiti di mafia intendono interrompere la collaborazione con i magistrati. Ai giudici della corte d'assise di Callanisselta, in trasferta nell'aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma per interrogare alcuni pentiti chiamati a deporre nel processo sulla strage di via D'Amelio, Marino Mannoia ha comunicato di non voler rispondere. «Anticipo che ho firmato l'uscita dal programma di protezione», ha detto nel silenzio dell'aula: «Sto maturando l'intenzione di non collaborare più. Per oggi mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Alla richiesta da parte dei pubblici ministeri Petralia e Palma di spiegare questa sua decisione, Mannoia ha risposto: «Da una parte c'è un articolo del codice che mi dà facoltà di non rispondere come imputato di reato connesso. D'altra parte faccio parte di un programma di protezione che mi impone di collaborare con lo Stato. Le autorità competenti devono mettere ordine in questa situazione. Non mi voglio sottrarre alle mie responsa- bilità. Ma non voglio nemmeno assumermi quelle degli altri». Il pentito ha così polemicamente concluso: «lo Stato si è svegliato tutto insieme e ha deciso 'questi mille pentiti ci stanno sulla pancia». Una doccia fredda che ha fatto seguito alla comunicazione, poco prima, dal presidente Renato Di Natale sull'assenza di un altro pentito, sia pure di calibro inferiore, Gioachino La Barbera, che aveva fatto sapere di non volersi presentare. Su richiesta del pm Carmelo Petralia, che sostiene la pubbica accusa con Anna Maria Palma, il presidente ha tuttavia disposto che La Barbera sia scortato in aula sta¬ mattina. La scelta di Marino Mannoia coincide comunque con i giorni in cui, invece, i boss pentiti catanesi Giuseppe Pulvifenti e Giuseppe Ferone intensificano i loro inviti ai «picciotti» delle cosche etnee perché seguano il loro esempio. Ma proprio a Catania l'avvocato Enzo Guarnera, deputato della Rete all'assemblea siciliana e legale di numerosi pentiti, commentando il comportamento di Marino Mannoia e di La Barbera, ha confermato «il disagio vissuto in questi mesi da numerosissimi pentiti». E Pietro Folena, responsabile nel pds dei problemi della giustizia, ha parlato di «campanello d'allarme su cui riflettere seriamente». E ha aggiunto che è opportuno non enfatizzare, seguendo gli eventi «con prudenza e sobrietà». Uno dei difensori di Marino Mannoia, l'avvocato Luigi Li Gotti, si è chiesto cosa si voglia in realtà dai pentiti: «Sono vivi perché la mafia non ha voluto ancora ucciderli - ha osservato - vengono sballottati da un posto all'altro anche con modalità che non tengono conto della sicurezza. Gli si chiede di ricordare episodi lontani e se fanno qualche errore si costruiscono sopra speculazioni». Al processo per la strage in cui con Paolo Borsellino il 19 luglio 1992 morirono cinque dei sei poliziotti della scorta l'unico pentito che ha deposto ieri, Marco Favaloro, 51 anni, già titolare di un autosalone, ha sostenuto di non essere al corrente di particolari sull'attentato compiuto mentre lui era in carcere. Favaloro si è limitato a indicare uno dei quattro imputati, il boss Salvatore Profeta, come amico della famiglia Madonia; una circostanza, se vera, obbiettivamente marginale rispetto alla strage. Francesco Marino Mannoia che oggi ha 44 anni fu per un bel po' di tempo un «golden boy» della mafia, condannato a 17 anni e infine a 10 per avere raffinato quintali di eroina per conto della «cupola». Fu la lupara bianca che nell'estate del 1989 inghiottì il fratello Agostino a convincerlo a pentirsi e si decise una volta per tutte la notte del 23 novembre successivo dopo che i killer delle cosche che aveva tradito, gli uccisero senza pietà madre, sorella e una zia. Poi toccò a uno zio. Ora il «chimico della mafia» è protetto dagli uomini dei servizi speciali antimafia assieme al padre. Sono gli unici sopravvissuti alla strage. Antonio Ravidà Il sostituto procuratore di Palermo, Guido Lo Forte. Secondo il magistrato la decisione di Mannoia è un «segnale inquietante» A sinistra Mannoia in udienza. Sopra la strage di via D'Amelio. A destra Lombardi «I politici non possono accorgersi all'improvviso del problema di mille collaboratori»
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