Napoli, processo a Vito Gamberale «Quattro mesi agli arresti senza raccogliere prove» di Fulvio Milone
Napoli, processo a Vito Gamberale Napoli, processo a Vito Gamberale «Quattro mesi agli arresti senza raccogliere prove» L'ex direttore generale della Telecom «Il giudice poteva chiarire l'equivoco» NAPOLI. E' trascorso un anno e mezzo da quando i carabinieri si presentarono nel suo appartamento a Roma per arrestarlo. E ora, nell'aula dell'ottava sezione penale del vecchio palazzo di giustizia napoletano, il direttore generale della Telecom Vito Gamberale racconta la sua verità. La vicenda è nota: il manager della società telefonica è accusato di tentativo di concussione in concorso con l'ex vicesegretario del psi, Giulio Di Donato, e l'ex assessore regionale Salvatore Arnese, dello stesso partito: tutti e tre, secondo il pm, avrebbero minacciato la Ipm, azienda che viveva sulle commesse Sip, di tagli sugli appalti se non fossero passate 4 o 5 assunzioni caldeggiate dal vice di Craxi. Gamberale, ammanettato il 27 ottobre '93, è vissuto per quattro mesi fra carcere e arresti domiciliari. E oggi ha deciso di parlare. Lo fa nella seconda parte di un'udienza che avrebbe dovuto segnare un punto a favore dell'accusa, ma così non è stato: ad incrinare le tesi del pm, infatti, ci ha pensato un certo Domenico Petruccione, consulente della Ipm, che nonostante fosse un teste a carico ha finito col dare una mano agli imputati: «Carmine Meloro (un altro testimone dell'accusa, ndr) ha detto a mia moglie di sentirsi un verme per aver ribaltato la verità». Poi tocca a Gamberale dire la sua. Attacca subito i magistrati: «Decisero l'arresto prima di aver raccolto gli elementi a mio carico, e non si preoccuparono di fare un minimo di accertamento per chiarire l'equivoco per il quale oggi sono costretto a difendermi». Quale equivoco? La sorte del manager, all'epoca dei fatti amministratore delegato della Sip, si gioca su una conversazione telefonica fra lui e Giulio Di Donato intercettata dai carabinieri alle 20,05 del 3 febbraio '92. Il vicesegretario socialista e il suo interlocutore parlarono di una serie di assunzioni che sarebbero state effettuate di lì a poco. Da chi? Dalla Ipm, che avrebbe dovuto accogliere le richieste pena la disdetta di molte commesse, sostiene l'accusa. Dalla stessa Sip, ribatte Gamberale: «Già nel settembre '91 Di Donato mi aveva chiesto se c'era la possibilità di fare 4 o 5 assunzioni. Risposi di sì, a patto che gli aspiranti fossero comunque sottoposti a selezioni rigidissime». Quale sorte toccò ai raccomandati? «Su cinque periti elettronici segnalati, quattro furono ammessi alle prove, tre furono promossi e assunti e uno venne bocciato». Le assunzioni, dunque, sarebbero state fatte dalla Sip, non dalla Ipm come sostiene l'accusa. Eppure, durante la telefonata, il nome della Ipm fu pronunciato più d'una volta. «Certo che se ne parlò - spiega il manager -. Già da tempo Di Donato aveva caldeggiato più commesse all'azienda, ma io gli avevo risposto a muso duro che la Ipm stava danneggiando la Sip perché forniva apparecchi pubblici difettosi. Durante la conversazione intercettata, Di Donato disse che aveva "terrorizzato" quelli della Ipm: alludeva alle mie rimostranze, mentre i magistrati si convinsero che quella frase si riferiva a chissà quale ricatto ai danni dell'azienda». Così fu decisa la cattura, un provvedimento che per Gamberale, assistito dagli avvocati Castagnino e Calvi, è scandaloso: «Fui arrestato alle 20,45, ma il verbale dell'interrogatorio dell'unico testimone che mi aveva accusato sia pure in modo vago, Paolo De Feo, uno dei titolari della Ipm, arrivò sulla scrivania del Gip solo alle 22». Fulvio Milone
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