Bentsik: in campo quasi per «ripicca»

Bentsik: in campo quasi per «ripicca» Bentsik: in campo quasi per «ripicca» CPADOVA OME quegli altri due comunisti di Masi e Pichetto, il banchiere veneto Ettore Bentsik è un berlusconiano mancato. Così ricorda l'incontro di Arcore: «Era 1* 11 dicembre 1993, un sabato. C'eravamo io e Bruno Lauzi. Entrò Lui e ci strinse la mano. Affascinante. Qual è il suo programma politico? Chiesi. "Non posso dirglielo, altrimenti me lo copiano", rispose. Poi, serissimo: "Ho già scelto il mio target elettorale: quelli che non hanno superato la seconda inedia". Schioccò le dita ed entrò Gianni Pilo. Tornai a casa turbato». Da quel giorno Bentsik cominciò a meditare il ribaltone, e il 23 aprile 1995, una domenica, sarà il candidato di D'Alema. «L'ho conosciuto qui a Padova un mese fa. Abile, furbo, spregiudicato. Ha capito che deve appoggiarsi a noi moderati se vuole raggiungere il potere. Il pds non è cambiato, ma sta cambiando. Forse avrebbero preferito Tina Anselmi: poi si sono resi conto che io piaccio di meno, ma rendo di più». Asossantatre anni, indossati meglio dei suoi vestiti, non si può proprio dire che Bentsik sia vecchio. Ma nemmeno che sia nuovo. Usato sicuro, ecco. La sua biografia sembra un «bignamino» di storia democristiana. Basta scorrere la lettera acchiappa-voti al capo localo di Rifondazione in cui «auspico un ampio confronto al fine di garantire» per riconoscere lo tracce indelebili del suo primo maestro: «Aldo Moro. Ma nel '77 litigai con Gui, cambiai corrente e mi dimisi da sindaco di Padova». Lo è stato due volte: una con dc-psi-pri e l'altra con dc-pli-psdi. Erano le formule degli antichi stregoni della politica, con i quali Bentsik è sempre stato attento a non mescolarsi oltre il tollerabile. Evitando Roma - la nomina a deputato - e puntando invece sulle presidenze di banche e consorzi locali. Ha cambiato molti «amici»: Moro, Mazzotta, De Mita, Fracanzani, infine se stesso e lì si è fermato, senza iscriversi a nessuna sottomarca della de. 1 nemici, invece, sono rimasti più o meno stabili: i dorotei di Bisaglia-Bernini dentro il partito e i socialisti di Craxi-De Michelis fuori. Questa duplice allergia aiuta a comprendere le decisioni politiche più importanti della sua vita: la denuncia della Tangentopoli veneta, il rifiuto di entrare in Forza Italia e il passaggio alla guida della coalizione opposta e probabilmente perdente, «ma siamo in rimonta, fino all'ultimo». La Tangentopoli secondo Bentsik comincia nel 1988, quattro anni prima del Pool, con una lettera aperta in cui l'antico moroteo denuncia che la de sta cambiando pelle. «Qui è tutto un "do ut des", mi colloco ai bordi del partito», scrive. Il capo-corrente Fracanzani lo rimbecca: «Ma che dici, bisogna lavorare per il bene della sinistra». Sarà, ma la sera Bentsik va spesso a cena con imprenditori che gli raccontano per il bene di chi lavorino certi politici: «Storie di taglieggiamenti inauditi». Il 6 marzo 1992, vigilia delle ultime elezioni del Caf, scrive al segretario nazionale Forlani: «Non avete candidato dei politici, ma degli esattori. Mi ero messo ai bordi, ora esco. Rieccoti la tessera». Forlani ovviamente non fa una piega. Bentsik lascia la de e tutti gli incarichi lottizza¬ ti: un'infinità. Cremonese, un boss doroteo del luogo, commenta: «Sputa noi piatto dove ha mangiato». Ma finito di sputare, Bentsik va dai magistrati. Di lì a qualche mese deporrà al processo contro Cremonese, Bernini e compagnia questuante. «Denunciai il meccanismo più che singoli episodi, perché gli imprenditori mi raccontavano il peccato, quasi mai il peccatore». Passata Tangentopoli, arriva Galan, il capo dei berluscones della Laguna. Non sa ancora che Bentsik sarà suo avversario, un giorno. Per ora, autunno '93, quel navigatore democristiano senza macchia gli sembra un must per il suo target, oh yoah. Di ritorno da Arcore, Bentsik fa melina: «Gli dico: "Galan, se vuoi ti aiuto a fare Forza Italia, ma guai se ci infili craxiani e dorotei". "Vai tranquillo", fa lui. Ma la domenica dopo vengo a sapere che hanno preso Sacconi e altri due socialistoni. Lo chiamo: "Allora, Galan?" "Tutto sotto controllo. Questo Sacconi è un'eccezione e poi lo candidiamo al Sud, così qui nessuno se no accorge". All'Epifania scopro che sono entrate intere sottocorrenti di dorotei. Riprendo il telefono: "Galan, stai rifacendo il pentapartito!». E lui: "Tu sogni. E poi il vero pericolo sono i comunisti». I comunisti. Adesso il compagno Bentsik vive e lotta insieme a loro. «Ostaggio», come intima Galan nei comizi, di questi «pidiessin» un po' patetici, che dopo cinquant'anni di sottomissione democristiana, non trovano di meglio che giocare al piccolo leghista («Per un Veneto più veneto», 10 slogan) e candidare un democristiano di l'erro alla presidenza della Regione. Intanto il famoso «Veneto bianco» si dissolve in mille schegge: i boy-scout con Bianco e i ciellini con Buttiglione, mentre nella disattenzione generale il ventre molle del cattofascismo «se ne frega» di ecd e ppi vari per planare direttamente fra le braccia di Fini. «Portami alla de», dice Kentsik al suo autista, abbastanza anziano por non fare domande. Sulla porta c'è scritto ancora democrazia cristiana: l'unico segnale del tempo è quell'adesivo dei popolari di sinistra appiccicato sopra. Nei giorni della secessione, un commissario di Buttiglione ha provato ad entrare, ma Rosy Bindi aveva già provveduto personalmente a mettere 11 lucchetto. Gli uffici sono sterminati e vuoti, simbolo di un potere che fu enorme, ma non esiste più. «Puff, tutti spariti!», ridacchia Bentsik, l'orse per mascherare il magone. L'Ulivo gli strappa un sorriso educato: «Speriamo. Andreatta è uno che consulterei tutti i giorni per poi far decidere a Prodi». Infine, la Quercia: «E' dura convincere la borghesia bianca a votare insieme ai "rossi": li chiamano ancora così. Ancor più dura convincere i contadini, che nei paesi del Polesine hanno l'osteria "democristiana" dirimpetto a quella "comunista", e se sbagli bicchiere sono guai. Eppure bisogna agggegarsi per bloccare questa destra colonialista, gente senza regole, per loro anche la Thatcher è comunista. D'Alema è più liberista di Fini, però deve farne ancora, di strada. La gente capirà. Se non domenica, la prossima volta. Ma vinceremo. Prima o poi». Massimo Grameliini

Luoghi citati: Arcore, Ome, Padova, Roma, Veneto