Pechino la rivolta di Barzini di Luigi Albertini

il caso. Ritrovate all'Archivio di Stato le lettere dalla Cina dei Boxer il caso. Ritrovate all'Archivio di Stato le lettere dalla Cina dei Boxer Pechino, la rivolta di Barzini Il grande inviato contro i collegbifantasiosi I T ROMA ELEGRAFATE avvenimenti!». E' il 19 novembre 1900 quando Luigi Barzini, spedito in Cina a copri¬ re la rivolta dei Boxer, riceve questo perentorio dispaccio dal suo direttore-mentore Luigi Albertini. I giornali italiani sono pieni di notizie sulle operazioni militari mentre il giovane «redattore viaggiante» del Corriere della Sera si ostina a mandare lunghi «pezzi» di colore. Il direttore è costretto a pubblicare i telegrammi dell'agenzia Stefani e dei giornali rivali. E comincia a chiedersi se abbia fatto bene a mandare il suo pupillo ventiseienne su un servizio così importante. In realtà Barzini telegrafa poche notizie perché le notizie sono poche. Era sbarcato in Cina a metà settembre quando la rivolta era già stata domata, le legazioni straniere erano state liberate e Pechino era saldamente sotto il controllo della forza internazionale mandata dalle potenze occidentali. Per g: istificare la sua presenza in Ciua (che si sarebbe necessariamente protratta fino alla primavera, dopo il disgelo) aveva deciso di concentrarci sul «colore». Altri colleghi meno scrupolosi erano invece dell'idea che la storia andasse «tenuta su», come si dice in gergo. E così continuavano a dare sfogo alla loro fantasia inventando le notizie, gonfiando episodi marginali, fornendo un quadro molto più drammatico di quanto non fosse nella realtà. Questa, almeno, è la spiegazione che Barzini offre al suo direttore in una serie di messaggi al vetriolo mandati da Pechino. Le lettere sono state ritrovate proprio in questi giorni tra le carte di Albertini all'Archivio di Stato. Barzini era reduce da un lungo apprendistato a Londra e dietro al suo sdegno giovanile per la malafede di alcuni colleghi più anziani è facile intravedere l'influenza che aveva avuto su di lui quel modello anglosassone di cui tanto si parla ancora oggi. Da quelle pagine ingiallite dal tempo arriva l'eco di un dibat- tito sempre attuale sul giornalismo nostrano. Il primo obiettivo di Barzini è di rassicurare il suo direttore sbugiardando i colleghi: «La presa di Pechino ha tolto ogni interesse e ogni importanza al servizio e la guerra non è più esistita che sui dispacci. Una corona di bugie sensazionali. Il nostro divertimento in Legazione è quello di leggere i giornali che arrivano (dall'Italia, ndr)». Barzini era arrivato in Cina con parecchio anticipo sui colleghi perché Albertini aveva organizzato la sua partenza nella massima segretezza. Colte in contropiede, le testate rivali avevano messo in piedi una rete di collaboratori in Cina per assicurare la copertura e evitare «buchi» clamorosi. Erano in genere addetti militari, giovani diplomatici, commercianti che telegrafavano notizie in cambio di piccoli compensi. Barzini li accusa di concorrenza sleale con l'aggravante del conflitto d'interesse, in quanto spesso ottengono notizie riservate per via dei loro altri incarichi. «E' giusto che tanti giornali chiamino loro "inviati speciali" delle persone che sono qui per affari o per altre ragioni?», chiede indignato a Albertini. Alla fine dell'autunno i veri inviati speciali dei giornali rivali arrivano anche loro a Pechino. Ormai non c'è più nulla da raccontare ma si sentono costretti a rilanciare la rivolta dei Boxer per il beneficio dei loro lettori. I loro telegrammi e le loro lettere mandano Barzini su tutte le furie. E il 17 gennaio 1901 si sfoga di nuovo con Albertini: «Sarà che sono una bestia ma certo è che io non avevo affatto immaginato quanto è avvenuto. Un nuvolo di corrispondenti è piombato qua a cose finite, assolutamente finite. Io credevo che tutto fosse possibile meno che creare degli avvenimenti, e invece ecco che i giornali mi insegnano che mi ero sbagliato in modo imperdonabile... Lei mi telegrafava: Telegrafate avvenimenti! E aveva ragione perbacco; da tutte le parti le notizie fioccavano in Europa e io facevo la figura dell'imbeciUe». La colpa di tutta quella cattiva informazione non era solo dei suoi colleghi: le redazioni centrali, in Italia, pubblicavano dispacci a effetto senza stare troppo a pensarci, magari attribuendoli al proprio - ignaro - inviato speciale. Barzini scrive di essere andato all'ufficio postale di Pechino per verificare di persona se l'inviato del Messaggero avesse davvero mandato tutti i dispacci apparsi sul giornale e a lui attribuiti. «Ho dei documenti inconfutabili: non ha mandato da Pechino che due telegrammi, per un totale di undici parole. E tutti conosciamo i dispacci pubblicati!». La vera bestia nera di Barzini, il collega che lo faceva schiumare dalla rabbia, era Giacomo Belcredi Gobbi, celebre inviato di guerra della Tribuna, quotidiano romano che rivaleggiava con il Corriere. Belcredi Gobbi aveva una visione «sportiva» del suo mestiere: amava il rischio, l'avventura, le allegre tavolate con i colleghi (arrivò a Pechino col proprio cuoco personale) e la scrittura fantasiosa. Tutto il contrario di Barzini, che lavorava da solo, raccoglieva metico¬ losamente le informazioni, componeva con fatica le sue «lettere». Sull'attendibilità delle corrispondenze del suo concorrente Barzini nutriva più di un dubbio: «I telegrammi della Tribuna formano il carnevaletto della Legazione. Si parla di scontri che non sono mai avvenuti, si danno dei morti di tifo come morti per le ferite riportate, si creano eroismi senza fondamento alcuno. Ma c'è di peggio: il corrispondente della Tribuna (io non Le faccio delle malignità, mi difendo) parla del suo "ultimo colloquio con Waldersee" (il comandante in capo della Forza internazionale, ndr), lui che non l'ha mai veduto neppure. Dice: "L'imperatore è in viaggio per Pechino" e dà tutti i particolari, mentre qua tutti sapevamo che non sarebbe venuto. E tante, tante altre cose». Conclude Barzini: «A me non importa un fico secco se il signor Belcredi, come tanti altri, inganna i lettori, travia l'opinione pubblica, tradisce la fiducia del suo giornale; ognuno intende il suo mestiere come meglio crede. Quello che m'importa è che chi rimane danneggiato dalle sue balle sono coloro che, come me, intendono di fare il proprio dovere onestamente, scrupolosamente». In primavera Barzini lascia Pechino amareggiato, e con la sensazione di aver deluso le aspettative che Albertini aveva riposto in lui. «E' strano che anche il Corriere della Sera sia caduto nell'inganno e che abbia largamente riportato le notizie false degli altri. Se aveste avuto un po' più di fiducia in me...». In realtà le corrispondenze di Barzini avevano riscosso grande successo. I tempi lunghi del rientro, via Giappone e poi attraverso la Russia con il Transiberiano, non fecero che accrescere la sua fama in Italia. E quando arrivò finalmente a Milano, un anno dopo la sua partenza, scoprì di essere, appena ventisettenne, una celebrità. Andrea di Robilant Polemica d'inizio secolo, ripropone un dibattito sempre attuale «Arrivano a cosefinite creano le notizie E io faccio la figura dell'imbecille» I NLudein PeIn Nell'immagine grande Luigi Barzini negli anni della sua esperienza in Cina. Qui accanto alla Pechino-Parigi del 1907. In basso Luigi Albertini