Un Cd e una nuova biografia riaprono il caso della Holiday Billie signora della gardenia di Mirella Appiotti

Un Cd e una nuova biografia riaprono il caso della Holiday Un Cd e una nuova biografia riaprono il caso della Holiday Billie, signora della gardenia Una vita maledetta tra coca e blues BA sua frase più celebre: «La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciotto anni, lei sedici, io tre»: l'inizio di una esistenza tragica, da «nera». La sua canzone più straziante Strange fruit: la storia di un linciaggio, la rivolta contro la violenza «bianca». Due perni attorno ai quali ha ruotato tutta la vita di Billie Holiday, la «signora che canta i blues», la regina del jazz fra i Trenta e i Quaranta, nata bella e poverissima. A otto anni lavava i pavimenti nel bordello di Alice Dean sua vicina di casa negli slums di Baltimora, gratis perché la tenutaria la lasciava «andare là nel suo salottino sul davanti, a sentire i dischi di Armstrong e di Bessie Smith. Non sono la sola ad aver sentito per la prima volta del buon jazz in un bordello; e poi il casino era l'unico posto dove bianchi e neri potevano incontrarsi come una cosa naturale». Stuprata a dieci anni, costretta a prostituirsi in un affondare nella droga a mano a mano che irresistibilmente, contro tutti gli ostacoli, nei locali malfamati di Detroit e di Montreal, soprattutto nella terribile e irripetibile Harlem degli speakeasies, del Pod's & Jerry's, del Log Cabin, di quella centotrentatreesima strada che era «la vera strada dello swing», il suo genio musicale (ma non sapeva leggere una nota) si rivelava. Eternamente «diversa» anche quando Count Basie e Benny Goodman, Lester Young e Teddy Wilson se la contendevano, anche quando guadagnava 3000 dollari la settimana e la gente sbancava il botteghino della Carnegie Hall, come per il mitico concerto del marzo '48, undici giorni dopo essere uscita dal riformatorio di Alderson, Virginia Occidentale, dove aveva passato quasi un anno per tossicodipendenza senza mai cantare, solo a pulire il porcile del carcere. A 40 anni distrutta, macchina per far soldi sfruttata dal mondo del jazz e dal mondo dei bianchi, sempre senza un dollaro tutto speso per pagarsi l'eroina e la coca, sempre più struggente quando attacca Love Man o God Bless the Child o The Man I Love, pietre miliari del suo repertorio e, come ha raccontato il clarinettista Tony Scott, uno dei pochi che le furono compagni e amici fedeli («l'unico uomo bianco che non vuole qualcosa da me») ricordando un concerto al Down Beat Club di Manhattan nel '49: «Da una prostituta, da una drogata si era trasformata in una dea dalla pelle scura, nel lungo vestito bianco, con una gardenia nei capelli e i lunghi guanti bianchi che servivano a coprire i segni degli aghi, una dea bruna in una giungla di bianchi». La gardenia bianca all'orecchio l'ha anche sul palcoscenico dello Smeraldo a Milano nel '58 quando viene fischiata (succede anche a Frank Sinatra, a Torino qualche anno prima, la gente grida «Vogliamo Ava, portaci Ava»), l'ha anche la sera del 25 maggio '59, alla ribalta del Phoenix Theater al Village, nella sua ultima apparizione in pubblico, dove «sembrava uno scheletro. Era da tre settimane che non mangiava e riceveva come unico alimento iniezioni di vitamina B12...». Billie muore meno di due mesi più tardi, il 17 luglio al Metropolitan Hospital di New York, piantonata dalla polizia che, per l'ennesima volta, l'aveva arrestata per possesso illegale di stupefacenti. Ha 44 anni. «Una Lady è morta e un/ Gentiluomo l'ha uccisa. Un/ Gentiluomo di nome moralità». Era stato Lester Young a soprannominarla Lady Day e tutti la chiamavano così, una sorta di corona, di spine soprattutto «perché il canto di Billie Holiday non descriveva soltanto la sofferenza personale, ma la realtà della sofferenza dei neri», perché «il blues che cos'era altro se non la malattia di cuore di un poveraccio?». Da tempo la Lady è entrata nel mito, quasi come James Dean, come Marilyn; quella strana e affascinante autobiografia scritta da William Dufty La signora canta i blues uscita anche in Italia prima da Longanesi, l'anno stesso della morte, e poi da Feltrinelli nel '79, è diventata un cult; l'industria discografica non l'ha mai dimenticata perché a non dimenticarla, a voler continuare a tenerla viva, sono stati tutti quelli che, in questi quasi 40 anni, hanno amato il jazz. In questi giorni Billie Holiday compirebbe 80 anni, era nata il 7 aprile 1915, e per onorarla tra una settimana arriva Blue Moon, un ed della Verve, mentre è appena uscito II caso Billie Holiday di Giorgio Campanaro per gli Oscar Mondadori, un libro che ogni «innamorato» della Lady dovrà leggere. Non è una vera biografia, non è neppure un vero saggio: è una grandiosa story, ricchissima dì dati, episodi, documenti (alcuni dei quali inediti) in cui l'avventura della Holiday, l'artista che ha influenzato la canzone pop americana per un arco di trent'anni, modello per Sinatra come per Sarah Vaughan e Ella Fitzgerald, si dipana di pari passo con una storia sociale dei negri d'America dagli inizi del secolo alla fine de¬ gli Anni 50, dalla grande migrazione nera verso Nord all'assassinio di Martin Luther King, alla prima commedia scritta da una nera, A Raisin in the Sun recitata da neri con regista nero rappresentata a Broadway proprio nel '59: un ancor modesto traguardo che Billie avrebbe comunque assaporato ma che probabilmente non fece in tempo a conoscere. Lei che incarnava ciò che Le Roi Jones ha scritto nel suo Popolo del blues: «Il nero non era nemmeno in grado di diventare bianco e ciò fu la sua forza; arrivava sempre nel momento in cui non poteva partecipare alla cultura dei bianchi... Da questa costrizione, da questa terra di nessuno nacquero la logica e la bellezza della sua musica...». Campanaro, studioso del mondo afro-americano, accompagna la protagonista (da amante mai sopra le righe, controllato, talvolta addirittura severo) attraverso le tappe della sua breve esistenza senza mai perdere di vista il retroterra socioculturale che insieme ne ha nutrito l'arte e condizionato la vita. Drammaticamente. Giacché «vincente nella carriera, Billie Holiday risultò perdente nel privato. Attorniata da parassiti e sfruttatori, perseguitata dagli investigatori della squadra antidroga e dalla polizia, adulata anche da una ristretta cerchia di bianchi "che contavano", ma mai invitata nelle loro case, soffrì soprattutto la morsa e la disperazione della solitudine e del razzismo». Sposata tre o quattro volte a uomini che di lei non si curavano o insieme ai quali regolarmente finiva in prigione, costretta anche nel momento della massima notorietà a passare sempre e dappertutto dalla porta di servizio, adorata sulla scena, respinta appena fuori dal backstage, la Lady sperimenta «gli enormi effetti isolanti che derivano dalla "nerezza"...» e il suo tentativo è stato di «superare tali effetti buttandosi nell'oblio della droga fino a pagare con la vita il prezzo di quello che una società, non certo senza colpe, definiva trasgressione». Billie era d'accordo con Ralph Ellison che, riferendosi alla propria razza diceva: «L'arte, il blues, lo spiritual, il jazz, la danza erano le cose che avevamo al posto della libertà». Lei ci aggiunse, pur sapendola mortale, l'eroina. Ma, come l'autore di queste pagine affascinanti annota: «Finché Lady Day cantò, e cioè sino alla fine, di lei si potè sempre percepire quella qualità speciale che Richard Wright definì "la capacità endemica di vivere"». Sola. Mirella Appiotti Oggi avrebbe 80 anni; arricchì i bianchi, ma rimase sempre povera Billie Holiday: la grande cantante era nata il 7 aprile 1915

Luoghi citati: America, Baltimora, Detroit, Italia, Manhattan, Milano, Montreal, New York, Torino, Virginia