BERTOLUCCI in bicicletta a prendere parma

BERTOLUCCI IL MIO 25 APRILE Così il poeta, rifugiatosi sull'Appennino, sentì tornare la vita BERTOLUCCI in bicicletta a prendere Parma j ROMA 1 sera, dopo tante emo\ zioni, sulla felicità di fi quel giorno straordinaAAJrio scese un'ombra, come un oscuro presentimento. Mancava una voce amata, quella di Giacomo Ulivi, l'alunno prediletto e più capace, il ragazzo che a sedici-diciassette anni s'ingegnava da solo a fare sabotaggio e propaganda antifascista e che dopo l'8 settembre era passato nella clandestinità. Attilio Bertolucci rigira fra le mani la foto di quella terza liceo al «Maria Luigia» di Parma dove insegnava italiano e storia dell'arte, e punta il dito sulla bella faccia bruna di un giovane in prima fila. Il ricordo di questa «felicità ombrata» è per lui ancora pungente. Incomincia da qui, dopo cinquantanni, il racconto del «suo» 25 aprile. Bertolucci, allora, aveva 34 anni. Traduceva Hemingway per Vittorini e scriveva versi recensiti da critici come Montale. Abitava a Baccanelli, a pochi chilometri dalla città, circondato dai campi ben coltivati, le mucche, il giardino, il frutteto, «i tigli profumati in eccesso», i contadini che abitavano in una casa né vicina né lontana dalla villa padronale. I suoi giorni scorrevano fra i libri, i dischi, la radio che sulle onde corte lo collegava col mondo, i quaderni su cui annotare pensieri e versi. Erano scomparsi gli amici e gli allievi, chi finito in montagna, chi all'estero. Esili, da quando era sceso in pianura nel luglio '44, erano diventati i contatti con i capi partigiani che conosceva. Ancora più intenso, se possibile, si era fatto il circuito dei sentimenti e degli affetti privati. Il «divino egoista» - come Vittorio Soavi lo ha definito e come lui con lieve civetteria ricorda - traeva sicurezza e serenità dalla piccola corte che gli si stringeva intorno: l'amatissima Ninetta sposata nel '38, il piccolo Bernardo nato nel '41, lo spaniel Flush, le bambinaie «che ancora non si chiamavano baby sitter». Ma neanche loro, «immobili fuggiaschi», erano risparmiati da lutti, pericoli, minacce. Attendevano la liberazione con ansia e impazienza. «L'erba era già cresciuta racconta -. Quella mattina, di buon'ora, i contadini arrivarono attraverso i campi sbucando dal verde e gridando tutti insieme. Era arrivata una macchina alta, alta - ripetevano non una camionetta, con una grande stella in cima. Dentro c'erano quattro uomini. Loro gli avevano indicato la villa. Eccoli, ecco che avanzavano. Io parlavo l'inglese e davanti alla mia casa accolsi i primi soldati americani, credo che fossero della Quinta Armata. Gli strinsi la mano. Chiesi notizie sull'avanzata. Chiesi che mestiere facevano. Uno rispose: the farmer. Io dissi ai mezzadri: è venuto un contadino americano a liberarci, è un contadino e lo dice con orgoglio. Offrimmo da bere, vino e latte fresco. Arrivarono i bambini, le donne del fattore. Incominciava una giornata di gioia e di sogni. Ninetta e io eravamo felici. Due fratelli di Ninetta avevano fatto la guerra, uno in Africa, e questo pensiero non l'aveva mai abbandonata. Presi la bicicletta e andai a Parma». La città era in festa. «La gente tirava i fiori sugli autoblindo. I soldati americani distribuivano baci e sigarette, sorri¬ si e caramelle, come s'è poi visto che accadeva ovunque. Parma era intatta. I tedeschi ritirandosi non avevano fatto saltare niente. Ma non tutto era lieto. Correvano pericoli e risentimenti. Sui tetti s'erano appostati i cecchini. Nell'aria si sentiva qualche sparo. Gli americani non se ne occupavano ed erano i parmigiani, i partigiani scesi dall'Appennino, che ci pensavano. A casa sua venne prelevata un'ausiliaria. Si dava la caccia ai repubblichini e li si chiudeva a campo Tardini, il campo sportivo. Fu arrestato Angelo Rognoni, che era mio amico, padre di Carlo il parlamentare progressista: era un uomo molto intelligente, laureato in legge, che - disoccupato - era andato alla guerra di Spagna ed era tornato federale di Tripoli; a Parma aveva firmato condanne a morte, io non so, credo che avesse un po' perso la testa. Il clima era questo. A luglio Parma si era proclamata repubblica con un movimento popolare disperato e coraggioso. Ma dopo la liberazione non ci furono esecuzioni sommarie. Tutti ebbero un processo». Ogni angolo della città era teatro di un incontro, un ritorno. «In piazza Garibaldi vennero ad abbracciarmi alcuni ex allievi, che avevano combattu¬ to in montagna. C'era Giulio Bollati, Dodo Braga. Si parlava di schieramenti, di tessere di partito, del cosa fare. Scintillavano i progetti e i sogni. Tornava la politica. Io mi schermivo. No, non volevo entrare in nessuna formazione. No, non erano quelle le cose che sapevo e potevo fare. Ci lasciammo e ci ritrovammo più volte, in quelle ore concitate di una giornata interminabile. A sera mi unii al gruppo che andava a occupare la Gazzetta di Parma, che durante la guerra aveva cambiato proprietari diventando fascista. Si formò un comitato che avrebbe ridato vita alla testata. Io non avevo nessuna competenza giornalistica ma ero entusiasta. Sarei diventato critico cinematografico e teatrale. Quella battaglia ero disposto a farla». La guerra non l'aveva fatta. Per i postumi di uno sfregamento pleurico era stato esentato dal servizio militare. Della grande bufera che si andava addensando i segnali arrivavano anche a lui. Giacomo Ulivi gliene portava uno scorcio. «La mattina ci vedevamo a scuola, il pomeriggio veniva a trovarmi ai Baccanelli. Parlava. Chiedeva libri. Lesse tutto Croce. Chiedeva cosa fare, con chi muoversi contro i tedeschi, per sollevare le coscienze. In classe scriveva temi bellissimi, veri saggi. A casa stampigliava scritte inneggianti alla libertà, sotto la falce e il martello. Andava a disseminarle per le strade, sul tram. Io gli dicevo: quello che so te l'ho detto, io non posso insegnarti la lotta clandestina, quella sanno farla i comunisti che dal '22 sono fuorilegge, io non so aiutarti. Gli diedi un mio piccolo libro di poesie, Fuochi in novembre, l'ultimo che avevo pubblicato, nel '34. Nel foglio di carta azzurra quella per lo zucchero - che era riuscito ad avere nelle ore precedenti la sua morte, su cui scrisse quel bellissimo testo pubblicato nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, ricordò una decina di miei versi. Sarà retorico, ma oso dire che se la poesia può consolare un ragazzo di diciannove anni che sta per morire, qualche funzione ce l'ha». Dopo l'8 settembre Giacomo Ulivi era entrato in clandestinità e Bertolucci si era trasferito a Casarola, sull'Appennino. «Non c'erano strade. Eravamo lontani dal mondo. E al sicuro, pensavamo. Ricordo l'emozione delle prime piogge, dei primi funghi, di un inverno candido di neve con Bernardo su uno slittino che i contadini gli avevano costruito. Avevamo tante mucche, anche troppo da mangiare. Ero fuori da ogni responsabilità, né sotto la Repubblica sociale né sotto nessuno. Tedeschi non se ne vedevano. Passavano ex prigionieri inglesi, scappati dai campi di concentramento di Fontanellato. Ve¬ stivano da contadini, con certi baffi rossi che dei contadini emiliani con avevano proprio niente! Notai quanto erano forti fra loro le differenze di classe: gli ufficiali non si mescolavano mai ai soldati. Gli davamo da mangiare, parlavamo. Giocavano con Bernardo. Uno, che disegnava molto bene, fece il suo autoritratto in alta uniforme davanti a Buckingam Palace. Ci faceva piacere accoglierli: ci sentivamo in Europa. Studiavo. Ascoltavo la Bbc da un fantastico Telefunken. Una sera sentii persino un discorso di Churchill. Fu un periodo magico. Veniva Ilio, un comandante della brigata Garibaldi. Venivano dei partigiani che stavano al Lago Santo, ed erano una brigata un po' pezzente: uno di professione era raccoglitore di pelli di coniglio, uno cantante d'operetta, uno marinaio. Facevano qualche esproprio. Gli davamo le tessere per fare spesa al villaggio. Nell'inverno decisero di spostarsi verso Monchio. "E se vi trovano?" chiedevo. "Diremo che siamo toscani e cerchiamo di tornare a casa". Avevano fucili del '91. Nessuno mai avrebbe preso per toscano il loro emiliano stretto! Purtroppo nel luglio del '44 ci fu nella zona un terribile rastrellamento. Morirono due nostri parenti. Furono incendiate le case. Scendemmo a piedi ai Baccanelli». Quella sera del 25 aprile '45, nella sede della Gazzetta di Parma, anche alla sua vita la storia imprimeva un nuovo corso. Si distribuirono le cariche. Due direttori si sarebbero alternati nello scrivere gli editoriali: Ferdinando Bernini, socialista, che era stato suo professore al liceo «Romagnosi», e Tito De Stefano, liberale di sinistra, di cui era stato collega al «Maria Luigia». «Fu proprio allora, mentre guardavamo al futuro, che io e Di Stefano pensammo a Giacomo Ulivi, al significato della sua assenza. Tito forse più di me lo aveva influenzato nella passione e scelta politica. Ci si strinse il cuore. Il lampo di un senso di colpa ci sfiorò. Solo a maggio sapemmo che era stato ucciso per rappresaglia, nei pressi del Duomo di Modena, a novembre. Aveva diciannove anni. Scrissi una poesia, rimasta inedita (che qui pubblichiamo, ndr)r>. Liliana Madeo «La città era infesta e lanciava fiori. La mia battaglia? Fu alla Gazzetta» m DALLA » LIBERAZIONE PER GIACOMO ULIVI E'giunta notizia della tua morte nei giorni delle bandiere spiegate, nei caldi giorni di questo maggio cittadino in festa al suono d'antiche fanfare. Non sapevamo più nulla di te. Ora sei tornato nel pallore della tua passione, la morte non ha vinto la tua giovinezza tenace. Attilio Bertolucci, Parma, 1945 L La poesia, Finora inedita, scritta da Bertolucci (nella foto in basso) per Giacomo Ulivi, l'allievo prediletto fucilato per rappresaglia a 19 anni. A fianco, pattuglia fascista catturata dai partigiani