Quegli antichi rituali di morte messi in scena da Cosa Nostra di Francesco La Licata

I cadaveri sono stati abbandonati davanti al macello comunale Quegli antichi rituali di morte messi in scena da Cosa Nostra IL LESSICO DELL'ORRORE CPALERMO HISSA' se erano stati informati dei rischi che incombevano sulle loro teste. Chissà se i giovani Kamel e Mehorez, tunisini in cerca di integrazione attraverso il malaffare, conoscevano le leggi spietate che governano il territorio palermitano. Glielo avevano detto che droga e prostituzione sono «affari a rischio», in una città dove l'eroina si spaccia ma lontano dai figli dei boss e le «mignotte» non devono trovare ospitalità nei quartieri di mafia? Lo sapevano, loro «clandestini» in una società sempre in bilico col codice penale, che una legge più rapida di quella amministrata nei tribunali poteva condannarli a morte per la violazione di norme non scritte che pretendono di salvaguardare la «moralità» di una banda di assassini? No, forse non sapevano. Altrimenti si sarebbero adeguati al «quieto vivere» di Brancaccio: il quartiere della guerra di mafia, degli assassini di padre Puglisi, della strage continua, dello stillicidio contro i familiari del pentito Salvatore Contorno. Nell'attimo in cui Kamel e il suo amico venivano presi per es- sere trascinati al macello - è proprio il caso di dirlo, visto che sono stati trovati a due passi dal mattatoio comunale - probabilmente avranno pensato ad una qualche «questione» risolvibile. E invece non si sono più svegliati. Li hanno trovati nello stesso recinto dove, durante la guerra di mafia degni Anni 80, Cosa Nostra fece sterminare - soltanto a scopo dimostrativo - nove uomini e un numero imprecisati di cavalli. Kamel e Mehorez sono stati strangolati, giustiziati con un colpo di pistola alla nuca e «incaprettati». Il primo è stato anche evirato e i genitali gli sono stati ficcati in bocca. Messaggio inequivocabile: la vittima ha sgarrato. Ha «importunato» una donna che non doveva neppure essere sfiorata con lo sguardo perché «appartenente» ad un boss. Oppure ha tentato di fare il magnaccia nel quartiere. Brutta cosa la prostituzione: Cosa Nostra non gradisce. Basti pensare che i protettori vengono soprannominati, in senso dispregiativo, «ricuttari». E chi fa il magnaccia non può essere ammesso nell'onorata società. Il rituale, per macabro e sel¬ vaggio che sia, ha il solo obiettivo di «comunicare» al quartiere che è stata eseguita una sentenza e che le vittime si erano macchiate di «reati infamanti». La mattanza, in pratica, è firmata anche se nessuno l'ha rivendicata apertamente. I cittadini di Brancaccio adesso sanno che Cosa Nostra ha provveduto a «ripulire» il rione e i bambini e le donne «possono circolare» tranquillamente, senza dover assistere a spettacoli sconci, come viene considerata la vista di una prostituta. La mafia ha fatto spesso ricorso ai rituali: il sasso (o il fico d'India) in bocca agli «infami» che non sono stati omertosi, il canarino per dire che è stato ucciso un confidente, il pesce per comunicare che la vittima «puzzava» anche da viva e la banconota tra i denti per sottolineare lo scarso valore del «traditore». Potranno anche sembrare inutili accorgimenti folcloristici, eppure per anni - questi riti da bassa macelleria - sono stati il collante che ha fatto convivere la mafia con la cosiddetta società civile, approfittando del labile confine tra il non sapere e il non voler sapere. A Palermo tutti conoscevano Salvatore Ciulla, mafioso emigrato in Lombardia. Si dedicava ai sequestri di persona e stava a Milano con Luciano Liggio. Ad un certo punto fu costretto a fare il latitante in Sicilia. Fu ospitato dal fratello palermitano, a Pallavicino, in una casa attaccata alla campagna che si avviava a diventare la landa deserta meglio conosciuta come «Quartiere Zen». Salvatore perse la testa per la nipote e un giorno le mise le mani addosso. Fu trovato morto in una «500» posteggiata alle spalle della «Palazzina Cinese», alla Favorita. Aveva i pantaloni abbassati e i genitali in bocca. Il quartiere non si scandalizzò più di tanto e i funerali furono quasi clandestini. Cosa Nostra, tuttavia, non abusa di certi rituali. Solo quando «ci vuole». Pino Marchese, per esempio, un cantante di piazza molto conosciuto ai palermitani, era stato pure avvertito. Una sera lo avevano picchiato sodo, ma lui non aveva voluto capire. Gli piaceva la moglie di un boss che stava in carcere e forse lui piaceva a lei. E se ne vantò pure, il cantan¬ te. Lo raccontò all'amico Mimi Pollicino, barbiere di corso Olivuzza ed organizzatore di feste rionali, anch'egli «sessualmente disordinato» e facile all'autoesaltazione. Mimi lo trovarono cadavere, con un sacchetto in testa e il cerotto sulla bocca. Al suo amico fu riservata la stessa sorte di Ciulla. E siccome non si trovava il cadavere, qualcuno diede l'annuncio per telefono. Naturalmente al centralino della Rai, visto che si trattava di un cantante. Francesco La Licata

Persone citate: Brancaccio, Ciulla, Luciano Liggio, Pallavicino, Pino Marchese, Pollicino, Puglisi, Salvatore Ciulla, Salvatore Contorno

Luoghi citati: India, Lombardia, Milano, Palermo, Sicilia