NEL GOLFO DI GIUDICI di Giovanni Tesio

NEL GOLFO DI GIUDICI NEL GOLFO DI GIUDICI Omaggio a una vita in versi mai la sua identità. Alla Serra mi conforta il paesaggio, uno dei più belli d'Italia, mi conforta la consapevolezza, o perlomeno la presunzione, di essere gradito». Nell'entroterra lericino Giudici condivide la «gloria poetica» (e sorride) con Paolo Bertolani, mia delle voci più sobrie della poesia neodialettale. Sulla «militanza politica» non mostra alcuna perplessità. Anzi, l'espressione lo fa sorridere e se ne schermisce. E' stato consigliere al Comune di La Spezia, eletto nelle liste del pei, e assessore alla Provincia, entrato come estemo in una giunta monocolore pds sorretta dalla de: «Esperienza negativa che non ripeterei, perché Spezia e provincia sono terreni particolarmente infelici, e perché non sono capace. Non ho il senso del potere». ATTOLICO senza Chiesa, comunista senza paradiso, intellettuale senza tradizione familiare. C'è sempre una crepa fra l'essere e il diventare. Al tribunale che lo fruga, come vuole il suo nome, Giovanni Giudici continua ad opporre che non è quel che sembra. Cattolico senza Chiesa 10 adatta a se stesso, citando Simone Weil. Comunista senza paradiso gli piace perché, sostiene, «c'è affinità tra escatologia marxista e escatologia cristiana, tra l'idea della società senza classi e l'idea paolina del corpo mistico». E' il poeta di Autobiologia (1962) che parla, della Vita in versi (1965), del Male dei creditori (1977), di Salute (1986), il traduttore di Puskin, degli Esercizi spirituali di Ignazio da Loyola, di Donne, Pound, Orten, il giornalista, 11 critico, il recensore, il collaboratore di riviste, l'intellettuale che proprio per questo sente tanto più profonda la mancanza di radici culturali. «Tutto viene da un'infanzia abbastanza difficile e viene dal fascismo. L'accettabilità totale del fascismo era basata su una certa immagine perbenistica: vestiti puliti, niente bagordi, niente osterie, composta e grigia austerità. Naturale che per certi aspetti anche nel gruppo familiare mi sentissi un poco escluso da tutto questo. Mio padre era stato cacciato dal fascio, non perché antifascista ma per morosità. E poi la brusca trasmigrazione. Dalle Grazie a Roma, e per di più in collegio. Anche il passaggio da Roma a Ivrea negli Anni 50 fu un bello shock. A Ivrea si respirava una cultura altra rispetto alla quale continuavo a sentirmi arretrato». Le Grazie è il paese spezzino, vicino a Portovenere, dove Giudici è nato. In questi giorni il poeta è a Milano. Qui conserva casa e residenza. Ha lasciato i greppi sassosi della Serra di Lerici, dove da qualche anno abitualmente vive. «Per ragioni mediche», dice e fa intendere un'emergenza che riguarda i figli, faccenda del resto più della moglie che sua. Lui in questi giorni abita quasi da autosequestrato nell'alloggio piccolo ma razionale di via Tadino, al quarto piano (con ascensore) di uno stabile decoroso e non privo di una sua aria antica. Nella giornata di quasi primavera l'orrenda piazza Oberdan, a due passi, appare addirittura bella. Nomi manzoniani che si intersecano: via Tadino, via Settala, i bastioni di Porta Orienta le, oggi Porta Venezia. E' la zona del lazzaretto, demolito nella se conda metà dell'Ottocento. Confida, e parrebbe senza civetteria: «Ci vivo da poveretto». Ma subito avvisa che l'attributo va in terpretato nel senso ironico con cui Sbarbaro gli scrisse a lapis una cartolina passata nei Fuochi fatui: «Potessero, gli incensi umani, di strarre per un momento almeno dalla conoscenza di sé. Nessuna lo de nessun onore, se lo merita, gli toglierà di restare ai propri occhi il pover'uomo che è». A Giudici piace molto citare e citarsi. Vede ormai poche persone. Solo gli amici più cari: qui a Milano Grazia Cherchi, Cosimo Onesta e un po' anche Edoardo Esposito Quando è alla Serra vede invece spessissimo, quasi ogni giorno, Carlo Di Alesio («l'amico più caro che io abbia in questo momento») un professore poco più che quarantenne che insegna al liceo di Sarzana e che ha ben curato il volume antologico Un poeta del Golfo (pp. 278, L. 35.000), scelta di versi e di prose pubblicata da Longanesi sotto l'egida della Cassa di Risparmio di La Spezia: 278 pagine di poesie, traduzioni, prose narrative, foto grafie, rievocazioni, ritratti che hanno coinciso con il traguardo dei settant'anni. «Coincidenza», avverte Giudici, «non un omaggio premeditato. La Cassa di Risparmio fa sempre un libro legato ai luoghi. Lo ha fatto con Soldati, Fu sco, il poeta dialettale Ubaldo Maz zini. Ora è toccata a me. Me lo han no commissionato un giorno che pranzavo con mia moglie a Lerici» Un libro solo involontariamente celebrativo, dunque, che è arrivato un po' dopo il compimento preciso degli anni (Giudici è nato il 26 giù gno del 1924). Vale comunque come occasione per un bilancio. Sulla Liguria dell'infanzia non c'è tenerezza, ma forse Giudici si difende dal rischio di una commozione troppo facile. Alla Serra si è trasferito non già - come lui stesso ha lasciato credere - perché al pae se natale delle Grazie gli abbiano negato un posteggio auto, ma «per il desiderio di un altrove e per il disagio provato nei confronti di un luogo, Le Grazie, che ha perso or¬ cbpztlPsmlsClvgdnvtp Cattolico senza chiesa, comunista senza paradiso: «Decisiva Faniicizia con Fortini» Giovanni Giudici Nonostante il ritorno alle origini la sua città rimane Milano: «Misuro le radici dal tempo che ho vissuto in un luogo. Dal 14 luglio 1958 sono cittadino milanese e continuo ad esserlo. A Milano devo la sopravvivenza, la famiglia, anche se i tempi del Blue bar, di Sereni, Sol mi, Ferrata, Antonielli, Noventa e degli altri amici cari alla memoria non esistono più. E' forse un effetto fisiologico dell'età, ma comincio a sentire la nostalgia anche degli anni giovanili di Roma. E poiché cerco sempre di pagare dei debiti ai luoghi che mi hanno accolto, ulti inamente mi sono anche imbarcato in un'edizione del Belli». Scrivere per pagare debiti misteriosi, per farsi perdonare. A tirar le somme, sostiene Giudici, «penso umanamente parlando di avere più debiti che crediti: con alcune persone, con la mia famiglia, che mi ha creato intorno un quadro di normalità. Senza mia moglie vivrei come un barbone. Il massimo della mia arte culinaria sono due uova al tegamino». E la famosa malinconia o Melancholia?, la nevrastenia, i nervi ragnatela? Quasi scatta dal divano, Giudici, per mostrarmi a capo del letto matrimoniale a due (piccole) piazze una stampa del Dùrer e già cita a memoria, lui gozzaniano d'e¬ n a l a , l ) lezione, il Gozzano che mi sembra quella del Vergiliato sotto la neve. Che non abbia l'età che ha? L'aspetto è giovanile, la voce soda e variata. Lo sguardo, a dispetto dei nati sotto Saturno, traduce ironico un'intima allegria: «Dopo un paio di mesi o più ho scritto una poesia nuova e per questo tutti mi hanno trovato di buon umore. Anche lei oggi mi trova di buon umore. Posso rinnegare le tante, troppe cose inutili che ho fatto, ma non le poesie». E filosofeggia con convinzione: «Gli eventi della vita ci guidano verso una forma di entelechia, di essere compiuto, cosicché ogni volta che facciamo una scelta, anche quando non ci pare di farla, siamo condotti verso ciò che è meglio per noi». «D'altra parte non ho mai pensato di vivere en poète. Se lo faccio ora, ne ho anche il diritto perché sono in pensione. Sono però contento di scrivere la mia rubrichetta di trenta righe per l'Unità perché mi sento ancora appartenente al mondo dei produttori. Il vero problema della vecchiaia è questo, non sentirsi più partecipi di un mondo produttivo». Ma già riprende il discorso dei bilanci, dei debiti contratti: «Per me è stata decisiva l'amicizia con Fortini, e deve pur essere stata amicizia, anche se qui a Milano non ci siamo frequentati. Ci vedevamo ogni giorno quand'eravamo alla Olivetti e mi ha insegnato un sacco di cose». Per esempio? «Per esempio la compatibilità della militanza rivoluzionaria e della militanza religiosa. Allora io tentavo di essere, anzi ero praticante». «Poi ho smesso per ragioni personali». E il cruccio è tutto nel tono: «Ragioni che mi ponevano fuori della comunione. Anche se non è proprio vero, perché Ernesto Balducci mi disse una volta che all'assoluzione basta il desiderio dell'Eucaristia. Lui sapeva che io ero tridentino. Sentivo tanto il bisogno della grazia», «Considero l'educazione cattolica la cosa più forte che è in me. Purtroppo non mi posso dire credente nel senso che la fede è un dono. Un po' come l'amore. Sono dunque d'accordo con Sergio Quinzio. La condizione della fede o del credere è l'incredibihtà delle cose credute. La fede non va confusa con le crociate sociali. Quelle le possono fare tutti. Alla Chiesa tocca dire che si deve credere nella resurrezione dei morti. Secondo la lettera paolina, noi risorgeremo perché Gesù è risorto. 0 si crede questo o tutto il resto è chiacchiera. Io vorrei poter credere alla resurrezione dei morti». Vorrei? «Sì, perché le tentazioni mondane, la ragionevolezza hanno su di me un peso non da poco. Bisognerebbe fermarsi a pregare come i musulmani cinque volte al giorno». L'esercizio dell'autofustigazione è compensato dalla costante dell'ironia e dell'autoironia: «Per fortuna sono sempre assistito da un salutare senso di inferiorità verso il prossimo, verso il mondo, e dall'altrettanto salutare senso di ironia verso me stesso». In questa perenne ambiguità, lui si sente molto ben rappresentato dall'esergo kafkiano che introduce Un poeta del Golfo: «Passa la giovane signora Blériot dal viso materno, seguita da due figli. Quando suo marito non può volare non è contenta e quando vola sta in pensiero...». Non è però una condizione che poco aiuta a credere e ad amare? Giudici ci pensa su qualche istante e poi ammette con rammarico: «Beh, insomma. Sì, è così. Sì, è così perché c'è soprattutto un senso di autodifesa molto radicato, che a volte fa mancare di generosità». Resta sempre la poesia, su cui oggi Giudici sembra disposto a concedere più di quanto non sia solito nelle sue riflessioni di poetica. All'aria la prudenza e ì'understatement dei fruscii e dei ticchettii. Quella cosa chiamata poesia è un male sacro, come nel «poema» Visitazioni di cui cita l'ultima strofa. La dichiarata cautela non è che una maschera di reticenza sublime. E' vera ma non è vera: «Può darsi che in fondo in fondo ci sia una grande superbia», ammette Giudici ora quasi grave. Ma già anche reagisce divertito: «Ho ancora una gran voglia di fare delle poesie, penso di farne un nuovo libro, poi dirò che ne vorrò fare un altro. Recentemente ho contato quelle che ho scritto finora. Sono 620». Troppe? Il poeta accoglie la provocazione con malizia divertita: «Sì, temo di averne scritte troppe, ma non ho finito. Sono ancora tante le cose che devo farmi perdonare...». tnpledkclrgZnOcT Giovanni Tesio