«Abbiamo uccìso, niente sconti Qualunque pena sarà giusta» di Ferdinando Camon

«Abbiamo uccìso, niente sconti Qualunque pena sarà giusta» «Abbiamo uccìso, niente sconti Qualunque pena sarà giusta» ASSASSINI D1VERT9MENT© IL pubblico non li vede mai in faccia, i tre lanciatori di sassi che hanno ucciso Monica, perché non parlano mai, non si girano mai, e non alzano mai la testa. Rimangono sempre così, a testa china, non solo muti ma immobili, nella loro panca avanti a destra. Il Veneto ha un termine per definire questo atteggiamento ed è «contrizione». La contrizione non è per una colpa, è per il peccato. Non è rimorso, è vergogna. La vergogna non cerca di riparare, ma di nascondersi. Lo capisco subito, perché succede uno strano incidente, del quale io, non giornalista, chiedo scusa ai giornalisti. Un avvocato della difesa, Guarienti (tutte le colpe del Veneto vanno a farsi comprendere e spiegare e giustificare da lui, fu il difensore di Freda, poi di Morucci e della Faranda, poi di Maso), come mi vede, mi chiede: «Vuoi parlare con i ragazzi?», li chiama così, cerca il pubblico ministero e gli chiede il permesso. Il pm lo concede. Entriamo dunque nello sgabuzzino dove i tre ragazzi son tenuti sotto custodia da un nugolo di carabinieri, ottodieci. Stanno in un angoletto, si fanno compagnia, in piedi. Per un attimo, gli han levato le manette. Mi guardano. «Vi farà qualche domanda, potete rispondere», dice l'avvocato. Il primo ragazzo allunga la mano, gli incontri cominciano con una stretta; il secondo lo imita; ma il terzo, il capo, tiene le mani in tasca, ostile, e domanda: «Giornalista?». «No - risponde Guarienti -, scrittore». Solo allora tira fuori la mano, e la tende. «Perché - gli chiedo - ce l'avete con la stampa?». «Certo - rispondono in due -, visto quel che scrive». «Scrive quel che avete fatto, sbaglia forse?». «Ma noi - continua uno solo, il capo - non siamo solo quelli che hanno ucciso, prima abbiamo ucciso, adesso vogliamo scontare». «Quale pena?». «Tutta quella che ci daranno». «Non volete una riduzione, non avete voglia di uscire presto?». «No, non ci interessa uscire presto, non ci interessa una riduzione, la pena che fissano noi vogliamo farla. Ma perché i giornalisti non credono al nostro pentimento?». Il vero incubo di questi tre imputati non è l'accusa, non è il pubblico ministero, non è la perizia: è la stampa. Sento che c'è qualcosa che bisogna capire, ma il colloquio è finito, del resto è stato un privilegio, i giornalisti protestano fuori della porta, vorrebbero parlare anche loro, ma non si può. Faccio tre passi nel corridoio, e mi ferma un uomo asciutto, alto, ener¬ gico, si presenta: «Frate Beppe». E' il frate delle carceri, in passato mi aveva telefonato chiedendomi di non scrivere più su quei tre «poveri» ragazzi, lasciamoli andare alla condanna in silenzio. Anche qui, paura o vergogna o rabbia verso la stampa. «Capisco la sua richiesta gli dico -, lei ha in mente questi ragazzi, ma noi non riusciamo a di¬ menticare Monica». «Abbiamo pregato per lei», mi rassicura. Sì, ma quelli che pregano son vivi, lei è morta. Il concetto chiave è proprio questo, la morte. «Non avevano la volontà di uccidere», mi spiega frate Beppe. «Ma ne avevano coscienza?», gli chiedo. «Neanche». Il pm farà a pezzi questa tesi: ((Anche una scimmietta capirebbe che lanciare sassi da 14 chili contro le auto in corsa, cercando di centrarle, vuol dire voler uccidere». Sarà feroce l'arringa del pm, e anche straordinariamente sottile dal punto di vista non solo giuridico (è il suo mestiere), ma anche psicologico. Cita Andreoli, il saggio «Giovani», appena stampato. Lo cita con precisione, ne usa il concetto-chiave, quello di «morte inflazionata». .All'età che hanno questi tre assassini (il pm ne fa un blocco unico: Moschini ha lanciato il pietrone da 14 chili, ma bisognava reggerlo con due mani: ora, se con una mano stava aggrappato alla rete del cavalcavia, poiché era montato con i piedi sul guardrail, di chi era l'altra mano che lo aiutava?; uno dei tre dice che dormiva in auto, ma quelli bombardavano gli autisti in transito nel buio, lo facevano da un mese, quella sera hanno sfondato un cranio, e lui dormiva? allora, è il peggiore dei tre), all'età che hanno, hanno già incamerato nel cervello, da tv e cinema, 18 mila assassinii. Ma è proprio questo, bisognerebbe dire al pm, che li rende uguali a tutti: appartengono a una generazione in cui ciascuno, individualmente preso, ha 18 mila delitti in testa. Questi delitti, chiusi lì, fermentano. L'uccisione di Monica è l'esplosione di quel fermento. Ogni fine settimana da un mese e mezzo, a notte tarda i tre-quattrocinque si trovavano al bar, mangiavano panini e bevevano birra, non fino a ubriacarsi ma fino a un attimo prima: «Per provare allegria e gusto». E' la loro cultura, l'alcool in funzione della visione, non del delirio. Una sola volta Garbin confessa di essersi sentito completamente ubriaco: ebbene, non si era divertito gran che, «vedeva doppio». E dunque, nella gara di tiro con le pietre, si piazzava ultimo. Era soprannominato «lo Sfigato». Il più bravo era D'Auria, numero uno. L'inventore dello spasso. Se un giorno ne faranno un film, gli spettano i diritti d'autore. Il numero due era Moschini, il lanciatore materiale del pietrone da 14 chili. Dal bar andavano sul cavalcavia, ma non diretti: prima si fermavano alla cava in località Girelli, che sta a questo sport delle pietre come una polveriera sta a un'esercitazione di tiro: forniva le munizioni. Lì alla cava parcheggiavano le auto, sempre più d'una, una Cinquecento, una Panda, e sceglievano le pietre. Nel buio, si perdevano di vista, ognuno cercava di nascosto, sperando di aver fortuna, ma poi il munizionamento veniva controllato ed equilibrato, prima di essere caricato: non doveva succedere che uno avesse tutte pietrone e gli altri tutte pietrine. Sarebbe stato immorale. Dunque, è possibile che qualche altro pietrone sia stato scagliato quella stessa sera. Difatti, e proseguiamo col racconto, prima della Renault Espace dov'era Monica fu colpito un camion, l'autista sbandò come colto da un ictus, frenò, scese e guardò: ombre sul cavalcavia, c'era luna piena, un'auto ferma, e, ben percettibile nel silenzio, una sghignazzata. La risata della Jena che ti mangia. La sghignazzata sta a questi giochi omicidi come l'applausometro sta alle gare televisive: è la misura del gradimento. Il camionista vide l'auto mettersi in moto, girare subito a U, e sparire. Annichilito, rimise in moto: oggi questo succede, arrangiati. Ma il terzetto andava semplicemente a cambiare l'auto, caso mai fosse stata vista. Avevano già una tecnica, erano dei maestri. Tornano e si mettono in agguato, ecco la Espace che arriva: le due frasichiave del delitto sono: «Questa la becco» e: ((Arriva l'atomica». L'atomica era la pietra in volo. Le ha dette Moschini, quelle frasi, ma non era un individuo, in quel momento era il braccio del gruppo: quindi è il gruppo che ha ucciso, è il gruppo che va condannato. Alla pari. Si sente anzi nelle arringhe dell'accusa e nel discorso della difesa (anche del cardinal Tonini) che il processo non è a uno-due-tre, non è a un gruppo, è al Veneto, all'enorme costo che il Veneto paga al suo enorme progresso. E allora ragioniamo sulla condanna richiesta dal pm. Ventitré anni sono una generazione. E la richiesta di 23 anni di prigione è come la richiesta che il Veneto «salti una generazione». Certo, in quella generazione ci sono forze di commovente generosità, tanto volontariato, grandi lavoratori, assistenti nei ricoveri, portatori di aiuti in Bosnia; ma questo «delitto per divertimento» viene ad aggiun gersi ai tanti «delitti per denaro»; ai figli contro i padri, alle figlie contro le madri, fratelli contro fratelli, si aggiungono adesso questi amici che bombardano gli sconosciuti che gli invadono il territorio: la bonifica da fare non riguarda più una famiglia, un quartiere, una città, ma una generazione. Ferdinando Camon Moschini, il capo della banda «Non ci interessa uscire presto Ma perché i giornalisti non credono al pentimento?» A sinistra: la vittima Monica Zanotti. Al centro i tre killer in aula, per il processo

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