L'apporto dei cattolici, l'unità e le differenze con i comunisti: così si delinearono i caratteri della dc Gorrieri Abbiamo umanizzato la resistenza

L'apporto dei cattolici, l'unità e le differenze con i comunisti: così si delinearono i caratteri della de L'apporto dei cattolici, l'unità e le differenze con i comunisti: così si delinearono i caratteri della de GORRIERI m mo umanizzato la Resistenza MODENA DAL NOSTRO INVIATO Qual è stato il vero apporto dei democristiani alla Resistenza? «Soprattutto una tendenza a umanizzare la lotta, mentre i comunisti la conducevano senza esclusione di colpi», risponde il comandante delle «Brigate Italia» Ermanno Gorrieri, 75 anni, di Modena, decorato al valore, segretario della de nel 1945-46 e segretario della Cisl dal '48 al '58, in seguito esponente di spicco della sinistra cattolica e democristiana. La sua storia di resistente è raccontata in un libro dimenticato, che si rivela oggi straordinariamente attuale: La Repubblica di Montefiorino, il Mulino, 1966 (ora ristampato dal Comune di Montefiorino). Che cosa rappresenta Montefiorino nella Resistenza? «La Repubblica di Montefiorino è stata la prima fra le repubbliche partigiane e la più lunga. Nasce il 18 giugno '44, sull'Appennino Emiliano, quando i partigiani cacciano i fascisti da un territorio che comprende sette Comuni, e finisce il 30 luglio, dopo 45 giorni, quando i tedeschi attaccano in forza su quattro lati. Ci sarà una ripresa, nell'autunno-inverno, su una zona molto più circoscritta, sfruttando la tipica mobilità partigiana. Nel periodo felice la Repubblica di Montefiorino arrivò a contare su settemila uomini, che nel periodo più duro si ridussero a cinquecento». Quando cominciò la Resistenza per lei? «Dopo l'8 settembre, il Battaglione allievi dell'Accademia militare si era precipitosamente sciolto, facendo una figura meschina e abbandonando armi e munizioni, che andammo a prelevare con un gruppo di amici di ispirazione democristiana, per metterle al sicuro. Io ero sottotenente degli alpini. Salimmo in montagna nel maggio, in ritardo rispetto ai comunisti. Ritardo di cui subimmo le conseguenze in tutta la fase di 45 giorni. Di fatto eravamo esclusi dai comandi. Ma nell'autunno ci fu una sorta di ribaltone, perché i comunisti avevano puntato tutte le loro carte sulla vittoria prima dell'inverno, mentre noi ci eravamo preparati, con vettovagliamenti e equipaggiamento, a affrontare le durezze della brutta stagione. Così divenni il comandante di una brigata di quattrocento uomini, che rappresentava il nucleo forte delle forze partigiane in campo». Qual era l'atteggiamento della popolazione? «In molti casi i veri eroi erano i contadini che dovevano sostenerci, apparivano stremati e subivano rappresaglie. I partigiani dunque avevano con loro rapporti difficilissimi, che proprio noi democristiani contribuimmo a migliorare». Il pei ha sostenuto il mito di una Resistenza come sollevazione unitaria e popolare. Il suo libro è stato scritto in polemica con questa interpretazione pei? «Sì. Volevo smontare la tesi dell'epica lotta di popolo, dove si vedevano contadini con le falci contro le autoblindo: non è una mia esagerazione, è roba scritta da Luigi Longo. In realtà la Resistenza è stata in Italia opera di minoranze, mentre la maggior parte della gente viveva nella paura. Però bisogna tener conto anche della solidarietà, che spingeva molti a vincere la paura per aiutare i perseguitati: i militari italiani in fuga dopo l'armistizio, i prigionieri alleati scappati dai campi di concentramento, e naturalmente gli ebrei». Qual è stato il contributo dei democristiani alla lotta partigiana? «Quantitativamente modesto. Ma qualitativamente fondamentale. Il fatto che l'egemonia, dopo l'estate, passasse a noi, qualcosa ha significato: noi tendevamo a umanizzare la lotta, non volevamo condurla senza esclusione di colpi, come facevano i comunisti. Volevamo anche poter valutare tutte le conseguenze delle azioni partigiane». Qual era la differenza più profonda e netta fra demo- cristiani e comunisti? «Posso fare un piccolo esempio. Nella Repubblica di Montefiorino, sindaci e giunte furono praticamente nominati d'autorità dal comando partigiano, cioè dai comunisti. Dopo il ribaltone, quando il comando è toccato a noi, ci siamo fatti interpreti dall'esigenza di dare un'organizzazione autonoma alla vita amministrativa locale, favorendo le elezioni di sindaci e giunte, e costituendo un Cln della Montagna, per organizzare la vita civile». Si possono includere nel movimento resistenziale anche forme come la resistenza passiva e il collaborazionismo coatto, di cui hanno discusso Bobbio, Rusconi e Scoppola sulle pagine del «Mulino»? «Nel nostro gruppo ci eravamo detti: che cosa sarà questa democrazia? E avevamo chiesto a Giuseppe Dossetti di farci delle lezioni clandestine in una parrocchia. Allora io lo prendo da parte e gli dico che avevamo nascosto delle armi. Lui mi ri¬ sponde: "Non sono d'accordo". Pensava che i cattolici dovessero partecipare spendendosi per chi aveva bisogno e aiutando i perseguitati, ma senza prendere in mano le armi. "Tu sai bene - mi disse - che ciò comporta gravi pericoli, compresa la fucilazione". Un anno dopo lo ritrovai in montagna: non portava il mitra, ma era comunque il rappresentante politico d'un esercito partigiano. Tuttavia penso che nelle sue parole ci fosse in nuce il concetto di resistenza passiva teorizzato da Pietro Scoppola: anche chi non era nella lotta armata può aver partecipato e corso dei rischi». La Resistenza è stata anche una guerra civile, come dice il titolo del bel libro di Claudio Pavone? «No. Io per guerra civile intendo la guerra spagnola: una lotta interna, intestina, di spagnoli contro spagnoli, mentre noi combattevamo un esercito nemico occupante. La Rsi era nata all'ombra della Wehrmacht. Ci siamo trovati a combattere contro altri italiani sostanzialmente perché erano dalla parte dell'esercito tedesco. Ciò significa guerra ci- vile? A me non sembra». Lei ha parlato di patriottismo e di solidarietà, ma in che misura hanno pesato la componente di classe, la lotta sociale? «L'idea di combattere non solo i tedeschi e i fascisti ma anche le ingiustizie sociali si sviluppò in noi strada facendo, anche per quanto assorbivamo dal contatto quotidiano coi comunisti. Comunque ci rendevamo conto che la società dopo avrebbe dovuto essere più libera e più giusta. Ricordo un volantino stampato alla macchia in cui dicevamo che la de non era né il partito dei preti, né il partito dei ricchi. Volevamo dire che era un partito laico e popolare». I partigiani e i repubblichini, dopo cinquantanni, possono essere equiparati nel nome della buona fede? «Io riconosco, anche nel libro, la buona fede sia di molti giovani arruolatisi nella Rsi perché credevano nella patria o nell'onore, sia di amministratori locali o commissari prefettizi nei quali prevaleva la preoccupazione di aiutare la popolazione rispetto all'adesione al fascismo. Ma riconoscere la buona fede di persone e di atteggiamenti - non troppa, non esageriamo -, non significa esprimere un giudizio storico. In fondo il primo riconoscimento della buona fede è stata l'amnistia. Ma è un'altra cosa equiparare i due fenomeni storici. Il fascismo è fascismo. Mentre dall'antifascismo è nata la democrazia, che si è espressa nella Costituzione. No, io rifiuto l'equiparazione». Lei come racconta la Resistenza alle nuove generazioni? «Io mi augurerei che la celebrazione dei cinquant'anni fosse l'ultima. Perché per i giovani la Resistenza è ormai come Garibaldi. E' storia. La generazione dei quarantenni si è sentita ancora partecipe perché figlia di padri che hanno partecipato alla lotta. Ma i ventenni e i trentenni sono figli di genitori che allora erano bambini o non erano nati. Ciò che penso necessario è che si insegni la Resistenza nelle scuole, si spieghi che è un pezzo della nostra storia. Forse i giovani possono capirne la collocazione nella storia. Ma non possono capire la collocazione della Resistenza nella lotta politica. I fatti storici si studiano, non si celebrano. Quanto è avvenuto per il 4 novembre deve avvenire per il 25 aprile». Alberto Papuzzi «Fra partigiani e contadini rapporti difficilissimi Proprio noi contribuimmo a migliorarli» 30, A^yANNI DALLA LIBERAZIONE gli ebrei». Qual è stato il contributo Ermanno Gorrieri, 75 anni. Nella Resistenza comandò le «Brigate Italia», quindi segretario della de nel '45-'46 e della Cisl dal '48 al '58, e in seguito esponente di spicco della sinistra cattolica e democristiana

Persone citate: Alberto Papuzzi, Bobbio, Claudio Pavone, Ermanno Gorrieri, Giuseppe Dossetti, Luigi Longo, Pietro Scoppola

Luoghi citati: Comune Di Montefiorino, Italia, Modena, Montefiorino, Rusconi