Il confessore del Palazzo

Il confessore del Palazzo Il confessore del Palazzo Morto a Roma Emilio Frattarelli decano dei cronisti parlamentari ROMA. Luogo tutt'altro che delicato, anzi per certi versi alienante e per altri sordido nel suo culto del potere, il Transatlantico di Montecitorio si è tuttavia sempre riservato una quota di rispetto e di tenerezza, anche, per Emilio Frattarelli, giornalista ultranovantenne. E' morto ieri. Da qualche mese era vuoto il divano vicino alla buvette, «il divano di Emilio», piccolo sito di pellegrinaggi e di memorie in verità sempre più evanescenti. Così com'era deserta, da un po', quella strana scrivania sopravvissuta a tutte le ristrutturazioni della sala stampa che Frattarelli occupava con geloso privilegio. Quando si muore a 96 anni - era nato il 7 ottobre del 1899, sotto re Umberto I, lascia una moglie di 87 anni e una sorella di 105 - non viene nemmeno da chiedersi perché. A 18 anni la rivoluzione bolscevica, a 90 il crollo del muro comunista: per un cronista è abbastanza. Ma Emilio Frattarelli non era semplicemente un giornalista, né d'altra parte è mai stato un grande del giornalismo. Era piuttosto un antenato, un testimone simbolico, un uomo «dell'aldilà», e per ciò stesso meritevole di riguardo e di affettuose premure. Attraverso la sua figura di sopravvissuto e quel suo lavoro unico - quasi 70 anni sulla macchina da scrivere - fino a ieri era possibile dare un senso reale, fisico, a eventi che nemmeno i suoi ricordi - a volte spazientiti, ed espressi in un accento romano così robusto e a suo modo signorile - riuscivano più a trasmettere. Ne aveva, d'altra parte, di ogni tipo, oltre ad una aneddotica brillante, pettegola e colta che collegava i padri fondatori della Repubblica con le beghe miserabili delle ultimissime sottocorrenti democristiane. Singolarissimo era il percorso politico-professionale di questa figura così familiare a Montecitorio. Nel primo dopoguerra Frattarelli aveva lasciato un impiego in banca per farsi assumere dal Mondo di Giovanni Amendola. Amico e compagno di risse antifasciste del figlio Giorgio, che ne ricordò nei suoi romanzi la passione per i cavalli e le belle donne (soprattutto una, vestita leopardata e soprannominata «la pantera»), smise di fare il giornalista du- Emilio Frattarel rante il Ventennio. Ricomparve, nel 1946, come portavoce del ministro azionista Cianca. Poi, senza essere del pei, riprese l'attività a Montecitorio per giornali para-comunisti come la prima Repubblica e il Paese Sera, per il quale arricchì il versante politico del caso Montesi con la scoperta dello «zio Giuseppe» (uno zio destinato a diventare celeberrimo e a cui diversi politici attribuirono la morte della nipotina). Sempre in ottimi rapporti con Togliatti. Improvvisamente, nel 1960, ruppe con Paese Sera e, da vero bastian contrario, si schierò con Tambroni. La sua ultima passione è stata però per Andreotti, «a studio» del quale si recava la mattina molto presto, tra i pochissimi ad avere il privilegio di assistere alla cerimonia della rasatura. «Emilio, siediti sul trono», l'invitava il divo Giulio indicando allegramente il bidet. Terminato il rito, intorno alle 8, si recavano insieme a Montecitorio, dove però, per disgrazia, parecchi ritenevano le parole di Frattarelli come direttamente ispirate da Andreotti. Con naturale seguito di confusioni e scenate. In realtà, ha voluto ricordare Andreotti, più che scrittore il decano dei giornalisti «si sentiva il confessore del- la vita pubblica. E i confessori non scrivono». Né raccontano. Raro esempio di anziano onorato e riverito, e ancora più raro nella società mediatica dell'usae-getta, Emilio Frattarelli ha impersonato un modello di giornalismo parlamentare oggi del tutto inconcepibile, ma soprattutto per tanti ha rappresentato una continuità storica perfino rassicurante. Così almeno l'Associazione della Stampa parlamentare, qualche mese fa, l'aveva affettuosamente celebrato in un libro (titolato appunto «Il divano di Emilio», a cura di Angelo Aver) in cui i suoi personali dati biografici s'intrecciavano a quelli dell'Italia. Scalfaro l'aveva fatto Cavaliere di Gran Croce. Il governo Berlusconi gli aveva fatto ottenere i benefici della legge Bacchelli. Oggi che è morto, si capisce meglio che è stato sepolto definitivamente un tipo di giornalismo. E che la continuità, per rassicurare, non deve essere artificiale. Filippo Ceccarelli Emilio Frattarell

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