La leggendaria capitale del Nord sta perdendo l'ultima guerra A Hanoi sognando gli yankee

La leggendaria capitale del Nord sta perdendo l'ultima guerra La leggendaria capitale del Nord sta perdendo l'ultima guerra A Hanoi, sognando gli yankee Gli eredi di Ho Chi Minh affamati d'Occidente IN VIETNAM 20 ANNI DOPO HANOI DAL NOSTRO INVIATO La battaglia di Hanoi si combatte al weekend. I ribelli entrano in città alle primissime luci delle albe, scendendo dai boulevard alberati di questa vecchia capitale coloniale francese. Dieci, venti, a volte anche trenta commandos si infilano l'elmetto, danno di gas, slittano le frizioni e al fischio del loro leader schizzano all'attacco del centro, tra gli applausi e le grida d'incitamento degli spettatori scesi in strada. Dalle strade laterali, reparti della polizia e dell'esercito popolare li aspettano in agguato. Accade ogni sabato e domenica, ad Hanoi. Gangs di motociclisti, branchi di scavezzacollo in elmetto nero, organizzano gare illegali di corsa sulle strade cittadine, Gran Premi spontanei, sfidando le autorità, la rivoluzione, la barba di Ho Chi Minh e soprattutto la morte. Due corridori e un poliziotto sono morti dall'inizio del '95, impastati contro le acacie dei boulevard. Almeno trenta persone, fra spettatori e partecipanti, sono state gravemente ferite. La polizia insegue, arrancando su vecchie, spetezzanti moto russe. I tribunali emettono sentenze draconiane - il vincitore del «Gran Premio di Hanoi» del 4 marzo scorso si è preso 22 mesi di carcere per «disturbo dell'ordine pubblico» - ma lo sanno tutti che il prossimo sabato i corridori torneranno. Anche così, in una gara spontenea di moto per i viali di una capitale dal nome leggendario - Hanoi - muore una dittatura e nasce una democrazia. Sta accadendo in Vietnam quel che avviene in Cina, a Taiwan, nelle Coree, in tutti questi dispotismi asiatici di vario colore che si erano illusi di potersi sviluppare senza crescere, di avere il libero mercato senza la libera stampa, e di poter fare la «perestrojka» senza la «glaétìtìsttì: là domanda di libertà soppressa rispunta in forme anoma le, «metapolitiche» direbbero gli esperti, e lentamente corrode regimi che muoiono dentro il gu scio secco dell'autoritarismo. Non saranno le Tienanmen, le barricate, i fucili a imporre la de mocrazia politica nelle «Tigri» e nei «Tigrotti» d'Asia, nelle nuove potenze industriali d'Oriente. Sa ranno invece le «gioventù bruciate» alla James Dean che vedo at traversare la capitale del sociali smo a cavallo di supermoto proi bite (il «Cong», il Partito Comuni sta Vietnamita, vieta il possesso di motociclette oltre i 125 ce) rin corse da vigili urbani a cavallo di impari motorini a due tempi. Sa ranno le antenne per la ricezione della Tv satellite, che gli elettricisti costruiscono clandestinamente, le armi che rovesceranno lo Stato e lo Stato lo sa benissimo: le ditte straniere che vogliono montare un'antenna parabolica devono impegnarsi con la polizia a non permettere la visione dei programmi stranieri ai dipenden ti vietnamiti. Saranno le migliaia di fedeli che ho visto la domenica nelle chiese cattoliche del Paese, parcheggiati con le loro moto sul sagrato per fare un ovvio gesto politico, più che per una vera partecipazione religiosa, a butta re a mare il Socialismo che 20 an ni or sono incarcerava i preti. E saranno i vietnamiti emigrati ne gli Usa che rimettono quasi 3 mi liardi di dollari l'anno in valuta ai loro parenti rimasti a casa, quelli che molto presto chiederanno il conto politico dei loro soldi. La mattina in cui atterro ad Hanoi, il quotidiano del partito, Nhan Dan (Il Cittadino), pubblica in prima pagina due notizie che raccontano più verità sul nuovo Vietnam di qualsiasi documento del Comitato Centrale. Sono l'au torizzazione data alla massima banca della nazione di emettere per la prima volta carte di credito Visa e MasterCard destinate ai cittadini vietnamiti. E invano un editoriale anonimo sullo stesso numero del «Cittadino» lancia un grido disperato invocando la «vi gilanza rivoluzionaria» contro «la degenerazione borghese de! so cialismo vietnamita». Ha perfet tamente ragione, povero edito- rialista anonimo. Le carte di credito, come i libretti di risparmio in Russia, sono già la controrivoluzione vincente. Il dispiacere, l'angoscia dei vecchi compagni si può capire. Viene quasi voglia di solidarizzare con loro, con questi settuagenari e ottuagenari che conobbero lo zio Ho, che vissero tutta la loro vita tra l'esilio e la clandestinità, che si facevano 500 chilometri a piedi per attraversare la zona smilitarizzata e immergersi nei tunnel dei Vietcong, rischiando la vita, la tortura, per segnare con la matita rossa sulle carte del Vietnam del Sud, nella luce dei lumini a petrolio sotto terra, i progressi del risorgimento vietnamita. Deve essere duro constatare di avere vinto la guerra e di avere perduto la pace. Deve essere amaro per il segretario del partito Nguyen Van Lin, per il vecchissimo Phan Van Dong, vedere che sul sentiero di Ho Chi Minh oggi volano le dame del regime che si fanno portare dall'aviazione a Saigon per lo shopping. Mi dicono i vietnamiti di ritorno, gli emigrati che scapparono come Boat People e oggi tornano sui nuovissimi Boeing (la stessa casa che fabbricava i B52) della Vietnam Airlines, che ci sono cellule di dissenso politico, samizdat, giornali e opuscoli clandestini fatti in casa. Un embrione di opposizione legittima è addirittura nata lo scorso anno, quando il Partito ha messo in lista contro i candidati comunisti per le sue finte «elezioni» un 10% di cosiddetti «indipendenti» e tutti sono stati eletti trionfalmente. Esistono persino bande di guerriglieri organizzati sulle montagne, mi raccontano, che tormentano l'esercito con azioni di disturbo, esattamente come l'esercito tormentava gli americani 30 anni or sono. Ma se dovessi scommettere anch'io una manciata di «dong» bisunti, come gli spettatori del Gran Premio di Hanoi, scommetterei sulla decomposizione incruenta di un partito vecchio, che sta lentamente marcendo sul ramo delle glorie al quale è appeso. E basta confrontare le due città fatali della storia vietnamita, Ha noi e Saigon, per leggere la verità. La Saigon «sconfitta», che ho ap pena lasciato, è un vulcano di rie chezza sordido ma vitale dove tutto è in sostanza come 20 anni or sono, e tornano persino a co mandare i misteriosi cinesi del quartiere di Cholon, il ghetto do ve i cinesi del Vietnam, come gli ebrei nelle città europee del Medioevo, controllano i soldi, l'oro, i traffici della città, sopravvivendo a ogni persecuzione e a ogni «pogrom»: furono loro, gli ebrei con gli occhi a mandorla, a ingrossare l'«exodus» della «Boat People». «Questa è esattamente la città che ho lasciato 25 anni or sono», mi ha confessato stravolto Johnny Liscio, un sergente di Filadelfia che trascorse 24 mesi lavorando come meccanico di elicotteri e ora sta percorrendo il Vietnam tutto a piedi. Ha rivisto persino i locali dove lavorano le «bum bum girls», come le chiamavano gli yankees, le esili, minuscole prostitute che i magnaccia trascinavano dai soldati grandi tre volte loro sordi alle grida disperate di «no please no, too beaucoup, too beaucoup», troppo grosso, troppo grosso. Per lo meno, i loro nuovi clienti cinesi e giapponesi sono più piccoli. La Hanoi «vincitrice» è in ritardo di almeno dieci anni sulla città «sconfitta», dalla quale sta succhiando i vizi e i soldi. E se questo ritardo ha conservato ad Hanoi quel poco di grazia ottocentesca, quel tanto di «douceur» piccolo borghese da provincia francese che Parigi dava sempre alle sue colonie in cambio della schiavitù, non ci sono dubbi su quale sia, fra la capitale e Saigon, la città che sta vincendo la pace. Già i «liberatori di Saigon», vent'anni or sono, avevano avuto qualche sospetto segreto: «Sarà dura convertire quei pigri, infingardi, corrotti saigonesi al socialismo», annotava profeticamente nel suo diario privato il colonnello Bui Tuin, un intellettuale in uniforme che fu tra i primi carristi a entrare nella Saigon «città aperta» la mattina del 30 aprile 1975. Talmente aveva ragione, che 15 anni dopo lo stesso Bui Tuin si convertì alla rovescia. Dopo essere divenuto negli Anni 80 condirettore di Nhan Dhan, l'organo del Partito, l'ex colonnello fuggì in Francia nel 1990, per denunciare «un regime burocratico di mandarini privilegiati e insolen¬ ti». E' facile capirlo. Hanoi, la città «pura e dura», sta sprofondando malinconicamente in una corruzione torva e arraffona che puzza di ultimi giorni dell'Impero. Se Saigon è la Los Angeles di «Biade Runner», Hanoi è la Mosca di Brezhnev. Quando lo faccio osservare, nella sede del partito un portavoce mi risponde che il Comune di Hanoi in questi giorni «ha ordinato tempestivamente la demolizione immediata di case pericolose sulle dighe» alla periferia per «proteggere il popolo». Andiamo a vederle. Alla faccia del tempestivo intervento. In due anni, non due o tre, ma 250 ville sono state edificate sugli argini di terra che da secoli proteggono Hanoi dal Fiume Rosso nella stagione delle piogge e li stanno sgretolando. Le case, di alti funzionari del Partito, di vecchi generali che in teoria dovrebbero andare in pensione con 40 mila lire al mese, non sono neppure abusive, all'italiana: sono state costruite «sulla base di permessi erroneamente concessi dal Comitato Cittadino». Traduzione: permessi comprati con le mazzette. Chissà come avrebbe reagito lo «zio Ho», Ho Chi Minh, che rifiutò di vivere nel palazzo presidenziale e, conoscendo bene il valore delle pubbliche relazioni, preferì la casetta del giardiniere. Per le strade della capitale, dove ormai sono rarissimi i segni dei bombardieri americani, decine di «edifici socialmente corretti e utili» stanno spuntando, secondo i giornali. Gli edifici socialmente corretti: sono casupole strette e alte, vagoni ferroviari messi all'impiedi, che i proprietari ripitturano e raddrizzano freneticamente, esponendo l'insegna «Hotel», e shopping centers costruiti nell'attesa di quei turisti americani che tutto il Vietnam sogna. Per riportare gli yankees in Indocina, è cominciata la demolizione dell'«Hanoi Hilton», il lager dove centinaia di piloti americani soffrirono per anni. Per esorcizzare il fantasma di «Rambo», il governo ha spalanca to i suoi archivi, mobilitato gli ex combattenti alla ricerca di quei 1300 «dispersi» che la demagogia della Casa Bianca, del Congresso e degli speculatori hollywoodiani facevano credere potessero anco ra esseri vivi. «Pensare che noi abbiamo 300 mila dispersi - so spira un ex colonnello che sta nell'ufficio di collegamento con il Pentagono aperto ad Hanoi - e ci siamo rassegnati». Ma i mille e trecento americani sono cadaveri in valute. I 300 mila vietnamiti sono solo cadaveri. Per ora, gli unici turisti che incontro ad Hanoi sono i francesi, tutti diretti al Vietnam di un'altra generazione e di un altro impero, Dien Bien Phu, per visitare il campo di battaglia ancora cosparso di rottami dove il colonnello di cavalleria Christian de Castries guidò 25 mila para, coloniali e legionnaires alla disfatta militare che risucchiò l'America in Indocina. Talmente numerosi sono i reduci in pellegrinaggio, che la Vietnam Airlines ha dovuto aprire un collegamento aereo regolare fra Hanoi e Dien Bien Phu per loro. Con aerei francoitaliani Atr. Tutto il turismo in Vietnam, per ora, è essenzialmente così. Una processione di revenants. Una folla di ex marines, ex para, ex missionari, ex insegnanti, ex militanti della sinistra internazionalista che vengono a deporre ad Hanoi, a Saigon, a Dien Bien Phu, le spoglie delle loro giovinezze, trascinandosi mogli sbuffanti e scoglionate fra tunnel Vietcong trasformati in passeggiate archeologiche, musei degli orrori bellici, bunker delapidati, giungle e fiumi. E tutti ci ritroviamo, alla fine, in una grande spianata di Hanoi, in fila tra ragazze dei licei con le grandi tuniche bianche che svolazzano al vento, ragazzini delle medie che si danno le cartellate, vecchi e vecchie con il cappello a cono in mano, e le lacrime sulla faccia di pergamena scura. Nel centro della piazza, davanti al palazzo presidenziale, sta il mausoleo di Ho Chi Minh e mi ritrovo a 10 mila chilometri di distanza, sulla Piazza Rossa di Mosca. La tomba dove i successori lo hanno rinchiuso, violando il suo testamento segreto nel quale aveva chiesto di essere cremato e buttato al vento «per risparmiare terra coltivabile», è l'esatta riproduzione del torvo Mausoleo di Lenin. Lo stesso marmo sanguigno, la stessa balconata per le massime autorità, persino lo stesso liquido nelle vene del cadavere, portato in gran segreto da Mosca dai curatori della salma di Lenin quando Ho morì, a quasi 80 anni, nel 1969. Avrei voglia di scappare, di correre via da questa imitazione d'orrore, da questo monumento a un altro colonialismo, aperta nel 1990, quando già Mosca non aveva più lacrime per Vladimir Ilic Ulianov. Ma non posso. Ho gridato anch'io il nome di Ho Chi Minh sulle piazze italiane e ora devo pagare il mio pegno. Eccolo lì, il morto, nella luce rosa da tabarin per migliorarne il colorito, le mani giunte, il volto inconfondibile, con la barbetta confuciana. Gli imbalsamatori sovietici hanno fatto un buon lavoro. E' molto meglio di Lenin, meno cereo, meno artificiale, forse perché non è ancora caduto in disgrazia. Pochi secondi, e poi la folla dietro spinge, le guardie intimano di uscire, la storia cammina. Fuori, un tassì fabbricato in Corea con il tassametro tarato esclusivamente in dollari, aspetta speranzoso: Airport, yes? All'aeroporto, sì. Buona notte per sempre «zio». E Good Morning davvero, questa volta, Vietnam. Vittorio Zucconi (3/Fine) Si costruiscono decine di hotel e shopping center per i turisti E si demolisce l'Hanoi Hilton ex lager periG.I. Sulle case della capitale spuntano come funghi antenne satellitari costruite clandestinamente Il giornale del partito denuncia come una «degenerazione» la comparsa nel Paese delle carte di credito Ogni domenica battaglia fra centauri su grosse moto (illegali) e polizia Piazza di Hanoi con il ritratto di Ho Chi Minh Sotto, soldati Usa