Riad, il mostro islamico contro la Città del sole

Riad, il mostro islamico contro la Città del sole Riad, il mostro islamico contro la Città del sole IL MIRACOLO IMPOSSIBILE LONDRA ASTA poco, pochissimo, per attrarre sul Golfo gli sguardi ansiosi dell'Occidente. Come disse Yamani quand'era ministro saudita del Petrolio, «queste acque turberanno per molti anni i sonni del mondo». Neppure la «madre di tutte le guerre» contro Saddam Hussein, la sua sconfitta militare, la sua rinuncia alle rivendicazioni sul Kuwait, neppure questi drammatici eventi il 90 e il '91 hanno disperso ugni umbra, ogni minaccia: e oggi il Golfo torna a essere oggetto di inquiete analisi strategiche e politiche in America è' in Europa. Che accade? Domanda difficile, questa. Non vi sono pericoli immediati, incalzanti, ma ve ne sono molti, troppi all'orizzonte. Quei pericoli che, come segnala il Financial Times, «innervosiscono» ora l'intera regione. Ecco il tema dei colloqui che William J. Perry, ministro americano della Difesa, ha avuto in questi giorni con i leaders dei sei Stati membri del Gulf Cooperation Council (Kuwait Bahrein, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita). Scarne sono state le notizie su queste consultazioni e, purtroppo, le poche raccolte dalla stampa hanno dato un'idea errata dei fatti. Si è così dedotto che Perry ha attraversato il Golfo soltanto per spronare i sei* Stati a rafforzare le difese contro l'Iraq e l'Iran. In particolare, Perry ha ricordato che Teheran sta irrobustendo la sua presenza militare nello Stretto di Hormuz, all'imboccatura del Golfo. Ottomila uomini «armati di missili e da qualche settimana, di armi chimiche», sono già schierati su tre isolotti, Abu Musa, Big Tunb e Little Tunb, rivendicati dagli Emirati Arabi Uniti. Da quelle tre basi, ha avvertito il ministro americano, gli iraniani, che per di più dispongono ora di alcuni sommergibili, «potreb¬ bero minacciare i movimenti delle petroliere», ma è un pericolo remoto, teorico. C'è un solenne impegno statunitense, proclamato dal presidente Carter, che obbliga Washington a intervenire contro ogni tentativo di strangolare il Golfo; le tre isole potrebbero essere facilmente polverizzate dall'aria; i sommergibili sono vecchi e vulnerabili. Le vere preoccupazioni sono diverse e, se Perry non le ha indicate alla stampa, è perché scaturiscono da una crisi ufficialmente innominabile: da una crisi interna, non esterna. In misura diversa tutti i sci Stati devono affrontare nuove sfide politiche, a Bahrein si sono già avute dimostrazioni, perfino nel tranquillo Oman la polizia ha arrestato alcuni «sovversivi». Al centro di queste tensioni c'è l'Arabia Saudita. Molti in Occidente ne parlano ancora come di una superpotenza finanziaria, ma quell'Arabia Saudita non esiste più: e stridente è il contrasto fra i grattacieli e le exbf^ssways a 10 corsie, e il pessimismo della popolazione e dei suoi leader. Sì, certo, l'Arabia Saudita siede tuttora sulle più vaste riserve petrolifere del pianeta, ma sono scomparse le sue favolose riserve di petrodollari, svuotate da vent'anni di spese folli in ogni settore, dall'infrastruttura al Welfare State, nonché dalla corruzione e dagli sperperi. Da tempo ormai, il prezzo del greggio vola a bassa quota, e adesso sui 16 dollari il barile, un prezzo inferiore in termini reali a quelli degli Anni '70. Entrate minori, dunque, erose altresì da un dollaro esangue e dall'inflazione. Come negli altri Stati del Golfo, anche in Arabia Saudita, un singolare e malsano «contratto sociale» rimpiazza l'assente democrazia. Grazie a questo «contratto», le dinastie regnanti sono state libere di attingere a piene mani al pozzo dei petrodollari, di arricchirsi senza limiti e senza pudore, di distribuire parte di questa manna ai loro vasti clan e alla nuova borghesia mercantile: e hanno potuto farlo perché, allo stesso tempo, hanno offerto alle masse un elevato tenore di vita cori un Welfare State* unico "al mondo. Per quasi vent'anni, i sauditi sono vissuti gratis, coccolati da uno Stato che pagava tutte le loro spese, che elargiva loro prestiti senza interessi, e garantiva a tutti un lavoro. L'«impoverimento», se così si può chiamare, dell'Arabia Saudita ha già posto fine a questo regno di bengodi; aumenta la disoccupazione, le spese sociali hanno subito un primo taglio del 6%, servizi prima interamente gratuiti come il telefono cominciano ad essere finanziati dagli utenti. Profondo è stato l'impatto di questa novità: non tanto per i disagi economici, in realtà ancora modesti, ma perché è la fine di un'epoca, della gaudiosa «era delle illusioni», quando il futuro pareva promettere soltanto un maggior benessere. In un'intervista al Wall Street Journal, Ibrahim al-Mohanna, docente di Relazioni internazionali all'università di Riad, dice: «La nuova Arabia Saudita non sarà povera, ma neppure prodigiosamente ricca. Dovremo lavorare tutti di più». Comincia così a sgretolarsi il vecchio «contratto sociale», e gli effetti sono inquietanti. Esplode l'opposizione al. regime; cresce la collera contro i seimila membri della famiglia reale, accusati di dilapidare il patrimonio nazionale; i ceti medi, delusi, domandano se il potere assoluto dell'infermo re Fahd non sia ormai un pernicioso anacronismo. C'è un'opposizione secolare e c'è un'opposizione religiosa e, quest'ultima, cui aderiscono moltissimi borghesi, s'inserisce nel nuovo filone islamista. Il gruppo islamista più abile e più pugnace è il «Comitato per la difesa dei diritti le¬ gittimi», diretto, da Londra, da Mohammed ai-Massari, 48 anni, docente di Fisica, fuggito da Riad l'anno passato. Il «comitato» ha l'appoggio di professionisti e intellettuali. Dopo l'Iran, l'Algeria, l'Egitto, il Pakistan, la parola islamismo raggela l'Occidente. Il Financial Times scrive: «La possibilità di lotte civile in Arabia Saudita e altrove, nel Golfo, terrorizza i leader locali e gli Usa». Non occorre molta fantasia per immaginare i vari scenari: brutali conflitti interni, crollo del fronte anti-iracheno e anti-iraniano. Già le nuove forze islamiste giocano la carta antioccidentale, accusano l'America e l'Europa di depauperare i Paesi, del Golfo costringendoli a comprare costosi arsenali, ricordano che la «bolletta» presentata dagli Stati Uniti per la guerra del Golfo, 60 miliardi di dollari, ha prosciugato le loro riserve. C'è chi affermò negli Anni '70 che la ricchezza petrolifera non porta che guai. La teoria s'è mostrata valida in molti Paesi, dalla Nigeria al Messico. Che avverrà nel Golfo? Mario Ci Hello Re Fahd d'Arabia Saudita: il Paese scopre di dover rinunciare al sogno dell'eterna opulenza

Persone citate: Little Tunb, Mario Ci, Re Fahd, Saddam Hussein, William J. Perry, Yamani