Caso Orlandi manette a un prete

Il sacerdote e due complici si sarebbero finti intermediari dei rapitori per avere 40 miliardi dal Vaticano Il sacerdote e due complici si sarebbero finti intermediari dei rapitori per avere 40 miliardi dal Vaticano Caso Orlandi, manette a un prete Una truffa la trattativa per liberare Emanuela ROMA. Altro che rivelazioni esplosive e complotto internazionale. Era un'estorsione ai danni del Vaticano. Colpo di scena, dopo lo «scoop» del Messaggero. Secondo il giudice Adele Rando e la Criminalpol del Lazio, non c'è mai stata una organizzazione criminale che tiene in ostaggio Emanuela Orlandi. Né c'è mai stata una trattativa tra la Santa Sede e i criminali. Al loro posto, dietro le quinte, c'era un terzetto di furbi pugliesi - il sacerdote don Tonino Intiso, direttore della Caritas di Foggia; l'avvocato Matteo Starace, trentenne di buona famiglia; un anonimo pregiudicato foggiano - che vengono accusati di tentata estorsione aggravata e continuata. Il prete e l'avvocato sono in galera. Il pregiudicato ò latitante. Il giudice Rando, che segue l'inchiesta da anni, è lapidaria; «Non c'ò nessun collegamento tra questa storia e la scomparsa di Emanuela Orlandi. Siamo di fronte all'inserimento di persone estranee. Semmai ò un'ulteriore complicazione per le nostre indagini». Gli inquirenti, insomma, sono ultrasicuri: hanno individuato una banda di sciacalli che tentavano il colpo grosso ai danni del Vaticano. Chiedevano ben 40 miliardi, fingendo di essere gli intermediari dei sequestratori. Ma il capo della Criminalpol del Lazio, Nicola Cavaliere, è secco; «Dalle nostre indagini non risulta nessun collegamento con la criminalità organizzata». E la trattativa vera e propria non è mai partita. In Vaticano, ovviamente, chiedevano preliminannente la prova che Emanuela fosse in vita. La Segreteria di Stato era stata interessata al caso. E la risposta non poteva che essere una sola: «Non ci interessano le chiacchiere». Ma ecco come gli investigatori raccontano i fatti: «Già da tempo avevamo notizia di questo tentativo di estorsione. Si avvalevano di una storia fantastica e chiede¬ vano una somma cospicua. Naturalmente il contatto c'è stato. La controparte d'Oltretevere s'è mostrata interessata. E non penso che si possano criticare, in Vaticano, se hanno cercato di capire quanta verità c'era in quel racconto. Non sono cose che si possono cestinare senza pensarci sopra». Il Vaticano stava a guardare, insomma. Ma anche gli investigatori sapevano. C'era stato un esposto anonimo, recapitato in Questura, che aveva riassunto per sommi capi la vicenda. E cosi, tre mesi fa, la Criminalpol era arrivata a don Tonino Intiso. Il sacerdote, però, convocato come tutti i direttori delle Caritas pugliesi dal giudice Rando, aveva negato tutto. E l'indagine si era arenata. Per nulla intimoriti, comunque, i tre erano andati avanti. Avevano mandato in Vaticano, esattamente un anno fa, il primo «memoriale» con le loro richieste. Ora dovevano premere sulle autorità vaticane. Per questo motivo avevano informato il legale degli Orlandi, Gennaro Egidio. E sempre a questo scopo, don Tonino aveva telefonato al suo collega romano don Luigi Di Liegro. «Ho avuto contatti con don Tonino Intiso - ha raccontato don Luigi al giudice - che mi aveva cercato per vedere se si poteva trovare qualche soluzione. Io però mi sono mostrato scettico. Non c'erano elementi concreti. Ho avuto la sensazione che si trattasse di una cosa poco chiara. Credo che anche don Tonino avesse la mia stessa convinzione, però forse sperava in qualche elemento degno di riguardo». In ultimo, gli estorsori hanno architettato l'uscita clamorosa sul Messaggero. Dice ancora Cavaliere: «Riteniamo che lo "scoop" facesse parte della trattativa. E stando alla nostra idea, anche l'intervista potrebbe rientrare nel tentativo. Sì, perché intervista c'è stata. Altro che smentite. Quando abbiamo letto il giornale, abbiamo visto che il canovaccio era uguale a quello che già conoscevamo. Quindi la deduzione è stata facile: chi ha dato l'intervista è lo stesso che ha tenuto i contatti». Gli investigatori sono convinti che don Tonino e il suo amico avvocato fossero gli anonimi che telefonavano all'avvocato Egidio. L'accento dei telefonisti era marcatamente pugliese. Ma il sacerdote è davvero un estorsore? Oppure non sarà un ingenuo - come lasciano intendere don Di Liegro e monsignor Giuseppe Casale, vescovo di Foggia - che s'è fatto prendere la mano? Se l'hanno arrestato, ovviamente, gli investigatori credono alla colpevolezza. Ma il giudice Rando prova a mitigare: «E' una persona semplice. Un ingenuo. Ho provato molta amarezza nell'ordinarne l'arresto». Resta il mistero su Emanuela, reso ancor più fitto dalle false piste. Ieri il giudice Rosario Priore, che indaga sull'attentato al Papa, ha interrogato per tre ore il papà di Emanuela. E si viene anche a sapere che il turco Orai Celik, terrorista di destra e trafficante di droga, già coinvolto nella inchiesta sull'attentato e prosciolto dalla Cassazione, un anno fa ha parlato a ruota libera di Emanuela: la ragazza si troverebbe in Sudamerica con due figli. I padri? Il suo convivente e un monsignore. Francesco Grignetti C'è stato anche chi ha tentato di far credere che la giovane fosse una figlia segreta del Papa Il giudice: «Forse don Intiso è soltanto un ingenuo» Interrogato il papà della ragazza nraIapqnnsccssgasv"tatsSD A sinistra don Tonino Intiso. direttore della Caritas di Foggia arrestato ieri A destra Orai Celik

Luoghi citati: Foggia, Roma, Sudamerica