L'Italia? E' un Paese sano, guarirà

I/Italia? E' un Paese sano, guarirà I/Italia? E' un Paese sano, guarirà L'ambasciatore americano: scommettiamo su di voi REGINALD BARTHOLOMEW in Italia da un anno e mezzo e ha già visto una rivoluzione politica e tre governi: qualche brivido Reginald Bartholomew, ambasciatore americano a Roma, pur avendo fama di «duro» deve averlo provato. Anche se è abituato a brividi di ben altra portata: è stato rappresentante in Libano dopo l'attacco dell'83 che provocò una strage di marines (241 morti) ed egli stesso subì un attentato; poi inviato speciale nell'ex Jugoslavia, nel periodo peggiore della guerra. Per questo ha fama di «troubleshooter», aggiustagrane; tanto che, all'epoca della sua nomina, si disse che Clinton l'aveva scelto proprio perché considerava l'Italia un Paese a rischio. Grazie a un simile background, nella sua prima intervista a un quotidiano italiano parla della situazione mondiale e del nostro Paese con tutta l'autorevolezza di una figura di spicco del Dipartimento di Stato. L'Italia è scossa da una tempesta monetaria forse senza precedenti. Pensa che ce la faremo ad uscirne? «Bisogna sottolineare che quello che sta subendo la lira è in parte condiviso da molte altre monete: c'è un elemento internazionale nella crisi. Le condizioni economiche di base in Italia sono buone, e per questo si deve ritenere che la lira sarà in grado di recuperare terreno. E' ovvio che sulla lira pesano problemi politico-economici strettamente italiani: la finanza pubblica, l'assetto politico. Ma, ripeto, economicamente i dati di fondo sono molto positivi, dunque la base per un recupero c'è». In Europa molti attribuiscono questa situazione alla debolezza del dollaro in seguito alla crisi messicana. Lei pensa che sia tutta colpa del dollaro? «Quello che ho appena detto sulle basi economiche dell'Italia vale almeno altrettanto - se me lo consente - per gli Stati Uniti. L'America punta a una crescita molto cauta con un "atterraggio morbido", per contenere le spinte inflazionistiche. Questo non è soltanto il risultato di una congiuntura economica, ma di uno sforzo molto importante di ristrutturazione dell'industria e degli orientamenti degli imprendito- ri americani». Cioè? «C'è un mercato globale, si deve programmare più sul lungo termine che sull'immediato futuro. Dopo l'esperienza degli Anni '80 abbiamo capito che non siamo più automaticamente imbattibili: il risultato è che siamo tornati al primo posto per quanto riguarda l'alta tecnologia e la competitività; non si parla più, per esempio, dell'incapacità americana di costruire un'automobile concorrenziale rispetto alle auto giapponesi. Lo stesso vale per le telecomunicazioni e altri settori. Abbiamo cioè una base molto solida che prima o poi - e io credo prima - peserà sulla situazione». Fino a ieri l'Europa ha avuto l'impressione che l'America fosse ostile al suo candidato alla guida del Wto, Renato Ruggiero. «Non era ostilità. Il Wto è un'organizzazione mondiale con responsabilità globali molto importanti. La realizzazione degli accordi Gatt dipende in gran parte dal Wto, e in questo quadro abbiamo impostato il problema, che non si è mai posto nei termini: Stati Uniti contro Europa, e tantomeno Stati Uniti contro Italia. Per non parlare delle fughe di notizie deprecabili e prive di fondamento. A titolo personale ho sempre pensato che Ruggiero fosse un candidato molto forte». Da qualche tempo sembra esserci una certa incomunicabilità tra Usa e alleati su alcuni punti come la Bo- snia, l'Iraq, Cuba. Per quanto riguarda la Bosnia, la divergenza principale è la revoca dell'embargo sulle armi ai musulmani, sostenuta da Washington contro tutti. «Precisiamo: sull'embargo non ci sono state divergenze fra l'Amministrazione Usa e gli alleati, c'è stata una pressione in questo senso da parte del Congresso, soprattutto del nuovo Congresso repubblicano...». Si è detto addirittura che ci sono stati rifornimenti clandestini di armi da parte americana... «No, questo è falso. Falso. Stiamo lavorando con il Congresso per risolvere il problema. E' evidente che questa non è un'iniziativa che possiamo prendere unilateralmente». Ma perché gli americani vogliono togliere l'embargo? «Quello che spinge molti americani a chiederne la revoca è in un L.:rto senso l'ingiustizia della situazione di fondo, a cominciare dall'enorme arsenale a disposizione delle forze armate serbe. Certo una decisione del genere avrebbe riflessi molto grandi sulla guerra. In primo luogo, l'impatto sulle truppe alleate che si trovano in Bosnia». Qual è il suo principale rimpianto, dopo la missione in Bosnia? «Difficile rispondere. Ma voglio sottolineare due cose. La prima: quello della Bosnia non deve essere, e non credo che sarà, il primo di una serie di conflitti etnici analoghi. La seconda: spero che in futuro saremo - parlo dell'Occidente, americani ed europei - più capaci di evitare simili conflitti, o almeno più capaci di gestirli. Siamo stati tutti presi in contropiede quando è scoppiata questa guerra, non ci siamo resi conto di quanto questi virus, tenuti in frigorifero per 45 anni, o forse fino dai tempi del trattato di Versailles fossero ancora vivi, e quanto! Per questo dobbiamo creare una nuova architettura per la sicurezza in Europa, anche per prevenire, evitare, controllare questi conflitti». La grande coalizione contro l'Iraq si sta un po' sgretolando sul problema delle sanzioni. La Francia ha aperto un ufficio a Baghdad, in Italia qualcuno ci sta pensando, la Russia scalpita... Questa ostinazione contro Saddam non rischia di creare un'alleanza tra l'Iraq e l'Iran, un Paese forse ancora più pericoloso? «Un'alleanza fra questi due Paesi non la vedo, e se dovesse realizzarsi non dipenderebbe dalla pressione che entrambi subiscono dalla coalizione internazionale. Il Consiglio di sicurezza recentemente ha confermato la linea delle sanzioni. La questione è molto semplice: noi americani non abbiamo interessi più forti dell'Europa nel Golfo Persico. Per noi si tratta né più né meno di applicare le decisioni dell'Onu. Ci sono le prove di come Saddam Hussein stia usando il denaro che potrebbe usare per sfamare il popolo, dunque non vediamo nemmeno un motivo per pensare di allentare le sanzioni». Perché l'ostilità della stampa americana nei confronti del presidente Clin¬ ton? «I giornali americani non accetterebbero questa definizione della loro linea: direbbero che stanno svolgendo la loro funzione, che è quella di una stampa libera in un Paese libero. Detto questo, è un fatto che i giornali diano molto spazio a storie di scandali... La spiegazione di questo fenomeno non sta nel candidato Clinton o nel presidente Clinton, ma in un'evoluzione che ha origine nel Watergate. Ad ogni modo, non cambierei la mia stampa con qualsiasi altra nel mondo». L'ex portavoce della Casa Bianca, Stephanopulos, in un'intervista ha detto che ormai quasi tutti i media americani rispondono a delle corporazioni, e quindi devono difendere particolari interessi. Il confine fra notizia e spettacolo, obiettività e non obiettività si è fatto molto più stretto anche in America? «Stephanopulos è un mio amico, ma non condivido la sua tesi. Ripeto: la stampa americana avrà anche dei difetti, ma resta una delle migliori del mondo». Gli americani, che amavano così tanto Clinton, ora sembrano amare di più il suo avversario, Gingrich... «Non mi sembra. Prendendo per buoni i sondaggi sulla popolarità, positiva o negativa che sia, neppure Gingrich sta molto in alto: i più recenti dicono che il 25% degli americani ha un'immagine positiva dell'avversario di Clinton, il 32% negativa. No, su questo piano il problema non esiste». E' possibile che alle prossime elezioni italiane vinca uno dei due partiti che si sono «convertiti» da breve tempo alla democrazia, il pds e Alleanza nazionale. Credete davvero che Fini non sia più fascista e D'Alema non sia più comunista? «Non temiamo per la democrazia in questo Paese e non temiamo per il futuro dei nostri rapporti. Ovviamente vogliamo che continui questa consonanza sulle grandi questioni internazionali, comprese quelle economiche. Dunque seguiamo le dichiarazioni e le azioni dei politici italiani, dei partiti e del governo: è normale nei rapporti fra due nazioni, accade lo stesso per qualsiasi altro grande Paese occidentale. Ma su chi chi governa e come non diamo giudizi all'opinione pubblica italiana, non è nostro compito, spetta agli italiani scegliere». Dunque, D'Alema al governo non farebbe più paura alla Casa Bianca. «Ripeto: non temiamo per la democrazia, né per i nostri rapporti bilaterali. Tratteremo con qualsiasi governo scelto dal popolo per due ragioni: gli interessi comuni, che sono molto forti, e i legami, anch'essi molto forti. Dopo la caduta del muro di Berlino molte cose sono cambiate. Tra le tante che sono cambiate in Italia, c'è anche una caduta degli atteggiamenti critici nei confronti della Nato. Su quest'ultimo punto in Italia oggi c'è un consenso più ampio che in passato e questo non può che farmi piacere». Mario Varca U La lira è in grado di recuperare terreno ì dati sono positivi Gl'embargoOnu contro l'Iraq è una questione di giustizia y j a Sul futuro della vostra democrazia non abbiamo timori tf j| «Non siamo mai stati contrari al candidato europeo al Wto E' una polemica immaginaria» L'ambasciatore degli Stati Uniti Reginald Bartholomew Prima dell'incarico italiano era stato negoziatore di Clinton nell'ex Jugoslavia Anarchici manifestano davanti al palazzo della Borsa di New York: prevedono un tracollo dei mercati