DE GAULLE la spada della pace

LA STAMPA Glucksmann: le élite non sanno più pensare alla guerra DE GAULLE la spada ella pace HPARIGI A detto una volta lo storico delle idee Jean Starobinski che la Rivoluzione france 1 se fu una sorta di vertigine: s'accese rapida e fu come passare dall'aggraziata altalena alla ghigliottina, dai quadri ispirati di Watteau e Fragonard alla realtà materiale del coltello. Ma anche il movimento contrario è possibile: e sempre ci sarà chi dichiara chiuso l'incidente della ghigliottina, definitivamente chiusa la parentesi delle guerre e del coltello, e inviterà gli uomini a rientrare, imperturbati, nella bellezza illesa di Watteau. Ecco dunque l'umanità civile pronta a reimbarcarsi per l'isola di Citerà, come se nulla avesse appreso. Le guerre sono state un dimenticabile inciampo, la pace eterna riprende i suoi diritti, il riposo è di nuovo di rigore. Caduto il Muro di Berlino anche l'Europa può riposarsi e, dopo aver annunciato la fine della materia storica e delle grandi battaglie, ritornare alle sue spirituali Montagne Incantate. D'altronde chi ha detto che la Montagna Incantata sia mai implosa, come accade nel romanzo di Thomas Mann il giorno in cui scoppia il tuono del '14-'18? In quel giorno il protagonista scopre di esser vissuto fuori del tempo, nell'ermetica clinica svizzera che col suo consenso lo ha cattivato: ma neanche Hans Castorp insegna alcunché, e il rientro nella lussuosa clinica sconnessa dal mondo torna a essere il sogno più condiviso, nell'Europa di oggi. E' contro questo inebriato reimbarco per Citerà che il filosofo André Glucksmann scrive il suo ultimo libro, intitolato non a caso: Dove sei, De Gaulle? {De Gaulle, où es-tu?, Ed. Lattès). Giacché di questo si sente oggi la mancanza, nelle élite di Francia soprattutto e d'Occidente: della capacità che ebbe il Generale di pensare la guerra, di metterla al centro delle sue riflessioni, di intuirne la continuità, dietro le ombre delle tregue successive. Ombre che De Gaulle riteneva fatali, perché l'illusione della pace durevole disarma il diritto e le resistenze, toglie forza alla legge: la capacità di usare la forza, per lui, era «indispensabile risorsa del pensiero, strumento dell'azione, condizione del movimento, levatrice del progresso». Impossibile capire la Grecia senza Salamina, Roma senza le legioni, la cristianità senza spada, l'Islam senza scimitarra, la Rivoluzione senza Valmy: «La spada è l'asse del mondo e la grandezza di una nazione non si divide», scriveva tra le due guerre. La Costituzione presidenziale della Quinta Repubblica è stata concepita perché apparisse chiara l'indivisibilità tra forza e diritto, fra spada e democrazia, e l'elezione diretta del Presidente francese è anche, dagli Anni 60, elezione di uno chef de gueire, di un condottiero di guerra: di uno stratego. Se oggi non è più vissuta come tale, se non si parla che accessoriamente di politica estera nella campagna elettorale e l'attenzione si concentra esclusivamente sui mali economici o sociali, vuol dire che qualcosa è cambiato, in Francia: cambiato e diminuito, nonostante l'abbondanza di candidati gaullisti. Non per questo mancano le celebrazioni, le commemorazioni delle passate vittorie belliche, dei passati eroismi come quello, solitario, di De Gaulle che rompe con la Francia pétainista nel '40, e su questo atto di dissidenza minoritaria fonda la sua legittimità. Ma Glucksmann scrive: «Si commemora per meglio seppellire, impagliare». Non per far rivivere quella che è stata l'eccezione di De Gaulle e della Francia, nell'Europa del dopoguerra. Commemorano con frenesia sentimentale solo nazioni che temono la perdita dell'identità o che, a forza di temere, l'hanno già perduta. La Francia di De Gaulle somigliava alla democrazia aristocratica auspicata da Tocqueville: pur essendo una democrazia sapeva concepire le guerre; pur avendo la saggezza pratica delle cose quotidiane, la scienza o il buonsenso dei piccoli avvenimenti della vita, sapeva coordinare i dettagli d'una grande impresa, fermarsi su un disegno e perseguirlo ostinatamente attraverso gli ostacoli. Ora ha perso la statura aristocratica che le aveva dato De Gaulle, e quel che resta è una democrazia dalle ambizioni solo sociali, «che fatica a decidere quali debbano essere gli interessi esterni della società, che obbedisce più ai sentimenti che al ragionamento, che abbandona i disegni lungamente maturati per soddisfare passioni momentanee» (Alexis de Tocqueville, La democrazia in America). Ora le élite sono composte da quelli che De Gaulle chiamava «politici in pantofole», scrive Glucksmann. L'autore ricorda anche come le commemorazioni della resistenza e di Auschwitz siano utilizzate per cancellare le offese del presente. E' così che scompaiono dalla visuale il genocidio in Bosnia, le responsabilità della politica mitterrandiana nel genocidio in Ruanda, la guerra di sterminio in Cecenia, l'integralismo islamico in Algeria e quello che monta in Turchia. «Mai più Auschwitz!» promettono liricamente le élite occidentali, e davvero sembrano credere in quel che recitano: sembrano credere che la civilizzazione sia salva una volte per tutte, che sia uscita illesa dal XX secolo, che non sia permanentemente minacciata di morte come diagnosticò Valéry dopo il '14-'18. Davvero sembrano credere che le guerre nei Balcani e poi in Cecenia siano guerre tribali, dove non è possibile né politicamente opportuno distinguere l'aggressore dal'aggredito, e proteggere quest'ultimo per evitare che i futuri aggressori profittino dei nostri patti con l'illibertà. Se non è possibile distinguere, è perché «la guerra è divenuta politicamente scorretta», commenta Glucksmann, e perché i furori presenti sono considerati folcloristici, esotici, come quando Mitterrand dice, a proposito della Bosnia: «Quei popoli amano la morte». E' il motivo per cui l'autore critica anche le tesi dello studioso americano Huntington, che dopo la caduta del Muro vede sorgere nuove guerre sante, generate dallo scontro fra civilizzazioni (islamica contro cristiana, cattolica contro ortodossa, slava contro occidentale): «In realtà non si tratta di salvare un particolare sistema di identità a spese di altri, né di innalzare una tavola di valori sopra la testa dei concorrenti, ma di mantenere la possibilità stessa della concorrenza. Più che una civilizzazione, si tratta di preservare il principio che permette a tutte le civilizzazioni di esistere». Questo azzeramento della morte (gli americani parlano di zero war: le guerre accettabili sono senza morti); questa «nostra incurabile, inetta attitudine a simulare la pace in un universo in guerra», ha una radice culturale precisa nel nostro secolo. E' il trionfo della scuola storiografica delle Annales, cui Glucksmann dedica importanti capitoli critici, mettendo a confronto le convinzioni di Fernand Braudel, Marc Bloch, Lucien Febvre, con quelle di De Gaulle. Per i padri delle Annales, le due guerre mondiali hanno questo significato: sono incidenti secondari, nella lunga durata della civilizzazione, così come non erano altro che dettagli fantasmatici, che eventi effimeri, le battaglie e le vicissitudini terrene di Filippo II, re di Spagna nel XVI secolo. Nell'attimo della sua morte, il monarca descritto da Braudel non lo sospettava, ma ben più importante della sua avventura contingente era la civilizzazione materiale del Mediterraneo, che stava nascendo. Non sapeva che le civilizzazioni forse periscono, ma la civilizzazione permane ed esce anzi rigenerata dai disastri. De Gaulle pensava esattamente il contrario: che la civilizzazione può morire per sempre, che il conflitto o pólemos è - come in Eraclito - «padre di tutte le cose e di tutte è re». Che non c'è la consolazione garantita da Braudel, la possibilità di seppellire la storia delle grandi battaglie e dei grandi uomini. Che questo aveva insegnato appunto la prima guerra mondiale alla troppo sicura, inebetita civiltà occidentale: questa fine possibile di tutto un mondo, intuita con tanta acutezza da De Gaulle come da Joseph Roth, e da Keynes, Freud, Valéry, Rilke, Teilhard de Chardin. Nel '14-'18 fece apparizione la passione della guerra per la guerra, non più prosecuzione della politica ma guerra estetizzata, come l'arte per l'arte. Hitler proseguì questa passione ma l'apoteosi del guerriero e l'estetica del coltello lo precede, in Jùnger e Von Salomon, e si ricongiunge con le odierne apoteosi del guerriero serbo, del guerriero integralista o mafioso. E' significativo e impressionante che Junger consideri decisiva per la sua vita e per il secolo la seconda guerra soltanto e non anche la prima (nella recente intervista alla Repubblica). E che consigli al poeta di traversare dormendo il Tempo dei Forti (nell'intervista alla Stampa). Pensare la guerra alla maniera di De Gaulle non vuol dire amarla né amare la morte, ma saperne contemplare la tragica eventualità per dissuadere l'aggressore. E' quello che Glucksmann chiama lo «spirito dei classici». Il classico non si mette in pantofole. Soprattutto non cerca consolazioni, neppure stoiche. Clausewitz che fu padre spirituale di De Gaulle non considerò mai chiusa la parentesi delle guerre napoleoniche, né la considerarono chiusa i romanzieri postnapoleonici come Stendhal, Flaubert, De Musset, Dostoevskij. Il classico è un inconsolabile, e come tale riapre la mente ai grandi espulsi che sono Edipo e Giobbe, l'Iliade e Aristotele. Edipo non lamenta la crisi dei Fondamenti, la perdita dei Supremi Valori: fa fronte all'avversità e alla propria colpa, assumendo e dando per scontata la crisi del Fondamento. Aristotele non cerca l'uomo buono, ma invita a considerare che l'uomo diventa peggio della bestia quando è malvagio, e che solo la pòlis può educarlo: fuori dalla Città pluralistica, l'apolide sarà o bestia, o Dio {Politica, I, 1253). Si trasformerà nel guerriero apolide che affascinò Jùnger, all'inizio del Novecento, e affascina oggi i nuovi guerrieri totalitari. L'inconsolabile è come il greco descritto da Plutarco: diverso dagli «abitanti dell'Asia, che servivano un solo uomo per non saper pronunciare un'unica sillaba: No». Questo è l'unico modo per vivere la crisi dei valori: lo spirito di contraddizione, la «fraternità degli inconsolabili», e per il politico la dissuasione gaullista in tutte le direzioni. In tutte le direzioni perché le minacce non sono finite. Né è finita la storia, né la guerra, né la fine possibile della civilizzazione. Barbara Spinelli DE GULLEla spada ella paù vissuta a che acca estera le e l'atsclusiva o sociali, cambiato, iminuito, di candino le celeioni delle dei pas solitario, e con la 40, e su minoritamità. 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