A Saigon, il cimitero del mito

A Saigon, il cimitero del mito Nelle villette dei veterani il bazar delle targhette di G.l. uccisi. E «Apocalypse now» è un night A Saigon, il cimitero del mito Ex eroi vendono i trofei della guerra dimenticata IN VIETNAM 20 ANNI DOPO HO CHI MINH W agonia durò tre ore, nella quiete di una ^JÉt^-V mattina di 20 anHB^fe«*<V^ ni fa identica a tk *0" li (llu:sla che vedo ^Hras, I" IH sorgere dalla finestra oltre il fiume Saigon, tra le vele delle giunche e gli alberi dei mercantili che risalgono dal Mar della Cina. Tre ore di silenzio rotto soltanto dai colpi delle pistole che i pochi generali sudvietnamiti rimasti si scaricavano in bocca, per morire con la loro disfatta. «E' finita - telegrafò a Parigi l'unico ambasciatore rimasto, il francese Morillon -, l'ultimo elicottero dei marines si ò alzato dal tetto della legazione alle 7 e 35. Fa molto caldo», aggiunse, lamentoso, come se a Parigi importasse qualcosa dei suoi sudori. Nella cattedrale di Notre Dame, preti e suore erano raccolti per chiedere a «Thanh Anh Thon», alla statua miracolosa di «Sant'Antonio», la grazia di risparmiare loro la vita o la verginità, secondo il sesso. Nel palazzo presidenziale, il presidente Minh, «Big Minh» come lo chiamavano gli americani perché era grande e grosso, fissava distratto la sua colazione di uova fritte e pancetta. Gli americani gli avevano offerto un passaggio sull'ultimo elicottero. «Big Minh» aveva rifiutato: «Qualcuno deve pur essere qui, quando arriveranno». Ma il coraggio gli aveva tolto l'appetito. Tre ore. E poi l'Apocalisse prese la forma di un vecchio tank sovietico modello T55, numero di matricola 879, 203a brigata corazzata dell'esercito nordvietnamita, che apparve cigolando alle 10,45 davanti al cancello del palazzo presidenziale. Il capo equipaggio, sottotenente Bui Due Mai, innalzò la bandiera rossa e blu con la stella gialla dei Vietcong sulla torretta. Sfondò coi cingoli la cancellata del Palazzo ormai indifeso, giusto per fare scena, e puntò il cannone contro le finestre del presidente. «Big Minh» accolse i conquistatori sulle scale. «Vi consegno formalmente il potere, nel segno della riconciliazione nazionale...», cominciò il Presidente che si era preparato il discorsctto d'occasione. «... No - lo interruppe brusco l'ufficiale nordvietnamita - tu non hai proprio nessun potere da consegnare, tu sei in stato d'arresto». «Ma non ho neanche fatto colazione...», balbettò «Big Minh». «E allora mangia», gli intimò il soldato allungandogli la sua razione di rancida carne conservata russa. Minh vomitò. «Ancora una fettina di mango fresco, mister?», mi chiede premurosa la cameriera della caffetteria versandomi un'altra tazza di caffè. No grazie, e passata la fame anche a me. Saigon. Battito di elicotteri e monaci buddhisti in fiamme, Joan Baez e napalm, Marion Brando e massacri a My Lai, comizi e cadaveri, B52 e assemblee alla Statale di solidarietà con i «compagni vietnamiti»... Vict-Nam-VinCerà... Viet-Nam-Vin-Cerà. Giù le mani dal Vietnam. Saigon: la «Gerusalemme Liberata» dei sogni di sinistra, il «Dòmino» degli incubi di destra. Se cade, cade tutto il fronte delle democrazie, dalla Nuova Zelanda all'India, ci imbonivano gli esperti americani. Se sarà conquistata dai Vietcong, l'Imperialismo subirà un colpo mortale, farneticavano i compagni. Quante idiozie. Quanti morti. Non ò successo niente di quel che la destra temeva. Non ò successo niente di quel che la sinistra sperava. L'America c'ò ancora. L'Urss non c'ò più. E l'alba di vent'anni dopo rovescia sulle strade di Saigon non più carri armati, ma Vespe e Honda. Good Morning Saigon. Esco dall'hotel nell'alba che comincia appena a scuotere i barboni che dormono sulla strada, accanto a un lumino a petrolio acceso per non essere investiti. I senzatetto e gli scugnizzi di strada sono centinaia di migliaia. Il Vietnam è una delle dieci nazioni più povere del mondo. Cammino nella luce di un sole già rabbioso che illumina i primi venditori di banane e i primi risciò in caccia di passeggeri. Porto in tasca una mappa della guerra, un baedeker del tempo politico perduto, dove ho segnato sopra diligentemente i luoghi esemplari di quella tragedia, l'ambasciata americana, la piazza dei bonzi suicidi, l'hotel Rex dove stava la Cia, la cattedrale, il Triangolo di Ferro, i tunnel sotterranei dei Vietcong, la strada dell'aereoporto Thon Son Nut dalla quale scesero i panzer vittoriosi dell'esercito nordvietnamita, il 30 aprile del 1975. Non so bene che cosa troverò, non so neppure che senso abbia questa recherche, ma so che lo devo fare, che la mia generazione deve chiudere finalmente il conto con il Vietnam. Oggi la rivoluzione viaggia su ruotine di gomma. Motorette, scooters, motorini, ciclomotori, Honda nuove di trinca insieme con vecchissime Lambrette 125 riverniciate a mano, un milione e mezzo di loro, un motorino ogni tre abitanti, la massima densità della Terra, occupano in permanenza la città che i comunisti ribattezzarono Ho Chi Minh e che gli abitanti continuano tranquillamente a chiamale Saigon. Le pochissime auto - l'importazione ò ancora vietata - sembrano scarabei assaliti dalle formiche. I guidatori viaggiano con gli occhi sbarrati, aggrappati al clacson. Intere famiglie passano appese ai motocicli come grappoli di pipistrelli, disposte in formazione «2 + 2», il figlio più grande in piedi davanti, il padre al manubrio, il figlio più piccolo compresso come una fettina di prosciutto fra la schiena del padre e la pancia della madre, la madre con il sedere che deborda dal sellino, a un dito dalla ruota posteriore. Un incidente, una scivolata, una buca e l'intera famiglia sarebbe annientata. Ma con un tasso di crescita di quasi il 3% l'anno, due milioni e mezzo che si aggiungono ogni 12 mesi ai 71 milioni di vietnamiti esistenti, la demografia delle grandi cifre se ne fotte dei motorini. Ci sarà sempre un'altra famiglia pronta a saltare sulla Honda caduta, come ieri c'era sempre un partigiano pronto a raccogliere il Kalashnikov scivolato dalle mani del compagno ucciso. Scusi dov'è la piazza dei bonzi immolati per la pace? domando. Hallo straniero! Vuoi comprare un orologio, uno Zippo, una ciotola di riso, un Phantom fatto con le lattine di Coca, una donna, una radio, mi rispondono. Non ci siamo capiti: io cerco la Storia non la Sony, la guerra, gli elicotteri Huey, l'odore di menta piperita che i monaci in tonaca zafferano gettavano a manciate sul fratello che arrostiva nella posizione del fior di loto, per confondere il lezzo della carne bruciata, ricordate? Hallo! Vuoi comprare una collanina, uno stereo, una penna, un casco di banane, una bandoliera di preservativi, una T-Shirt, una confezione di antibiotici di contrabbando? Riproviamo. Scusi, è questa la strada dalla quale venne il T55 che conquistò Saigon? Sì, è questa, mi dicono finalmente e qui ci sono i segni della marcia vittoriosa delle armate proletarie del Nord. Sono bizzarre case alte e strette, ornate da finte mansarde e balconate di plastica, dove gli alti ufficiali dell'esercito si sono sistemati a godersi i frutti della vittoria, in un lusso sibaritico per gli standard locali. E hanno naturalmente aperto subito negozietti al piano terra, perché gli stipendi e le pensioni militari sono da fame. I guerrieri in pigiammo nero delle paludi, gli eroi scalzi di Khe San, di Huè, di Danang, di Pleiku che umiliarono la superpotenza, stanno in pantofole davanti alle loro spoglie di guerra. Hallo! Inte¬ ressa una camera d'aria, una scatola del cambio, un filo della frizione, un cocomero, una bottiglia di miscela per il motorino... Mi aspettavo il Cuore di Tenebra. Ho trovato Forcella. Saigon è una Calcutta brulicante di monchi, storpi, mutilati di guerra e, sospetto, di motorino. E' una Hong Kong in ritardo di mezzo secolo, intrappolata in vicoli sordidi, impigliata in una m/seria profonda 350 mila lire di reddito medio annuo per abitante - ma una miseria asiatica, non languida e fatalista come quella africana o latina. Una povertà ringhiosa, trafficona, aggressiva, che già promette l'alba di un boom sicuro. Cercavo le orme del socialismo e trovo le chiarissime impronte di quel nuovo «modo di produzione» asiatico che va dalla Cina comunista alla Singapore franchista e si riassume in una formula semplice quanto brutale: massima libertà economica, minima liberta politica. Il sogno del capitalista ottocentesco. Se avessi soldi e pelo sullo stomaco investirei a Saigon. La miseria asiatica ha sempre ripagato bene chi ci ha scommesso sopra. Il socialismo è finito con l'ultima torpediniera russa che salpò nel 1989 dalla base di Cam Ranh, lasciando dietro di sé la nausea dei russi, gli odiati ■'americani senza soldi» come li sfottevano i ragazzi di strada, e una marea di orologi militari «Polyot» scambiati dai marinai per un'ultimo abbraccio tropicale prima di tornare al gelo di Munnansk. Da allora, il regime, sia detto a suo merito, non fa neppure più finta di essere rivoluzionario, proletario, comunista. Il Vietnam non è Cuba, non andrà a fondo con il «socialismo o muerte». In città non vedo una sola falce e martello. Dalle strade, brillano invece ovunque i nomi che i vietnamiti oggi invocano: Honda, Suzuki, Seiko, Sony, Hyundai, Samsung, Luxottica, Iveco, Vespa, Ariston, Indosit, Citizen, Yamaha, Swatch, Mitsubishi. Ma c'era bisogno di un milione di boat people e dei campi di rieducazione, per arrivare a capire che la gente preferisce lo Swatch a Lenin? Il partito è molto più preoccupato dell'Aids, che del dissenso o della «linea», e grandi cartelloni esortano all'uso dei preservativi, segno infallibile che la prostituzione sta di nuovo dilagando. Nella stanza del mio albergo, un colosso nuovissimo e pacchiano costruito con i capitali dei cinesi eh Taiwan, che hanno soldi e pelo sullo stomaco, una circolare sul tavolino da notte mi intima, senza tante perifrasi, di «non portare prostitute in camera». A pochi chilometri, nel delta del Mckong, sono toniate giunche di pirati, che assaltano autobus e ferry boat con gli Ak47 residuati di guerra. Sul Mekong ò tornato Sandokan, che era di queste parti. La Saigon della «nostra» guerra vive ormai soltanto negli studi di Hollywood e nelle nostalgie senili dei reduci di una storia finita, come quella Joan Baez che verrà qui a cantare per un'ultima volta alla festa del 30 aprile, per un pubblico che preferirebbe di molto Madonna o gli Stones. Persino i venditori di souvenir bellici sono ormai rari. I marciapedi sono inondati da cascate di videocassette e di catenine d'oro fasulle, di speakers e di valigie, di scarpe e di magliette, di Cd e di borse di nylon, come se il fiume carsico del ciarpame d'Asia ormai scomparso da Hong Kong e da Taipei, da Tokyo e da Singapore stesse riaffiorando tutto qui, sotto il naso di «zio Ho», come lo chiamavano affettuosamente i soldati del Nord. E sotto etichette palesemente false: gli scaffali delle botteghe di Saigon traboccano di videoregistratori «Sonvi., di televisori «Pansonic», di magliette «Lacost», la fiera della contraffazione. Hallo! Vuoi comprare una borsa, una stecca di sigarette... no, maledizione a voi, voglio la mia Apocalisse, Viet-Nam-Vin-Cera, VietNam-Vin-Cerà, voglio i miei anni formidabili. Ah, V Apocalypse Now? s'illumina finalmente un tassinaro. Vieni con me. Ci siamo. La macchina mi porta al fiume, proprio quello dove le motocannoniere partivano per portare i Charlie Sheen dai Marion Brando, il cuore mi batte un po' più in fretta. Ecco l'Apocalisse. E' un night club, «Apocalypse Now», aperto da imprenditori di Honk Kong, e tutto l'odorato con gigantografie dei film di Coppola, Stone, Kubrick, dove si balla sulla colonna sonora di «Good Morning, Vietnam». Cinquantaquattromila americani, e un milione di vietnamiti sono morti per creare una balera. Ma che cosa pretendevo, da una città dove il 50% dei saigonesi ha meno di 20 anni, dunque non ha ricordi personali della guerra né dell'orgoglio, o del terrore, della Riunificazione? Che diritto abbiamo di imporre ai saigonesi, ai vietnamiti tutti, il fardello dei nostri miti e delle nostre delusioni? La domenica pomeriggio, i giovani senza memoria vanno davanti alle immense vetrate del mio albergo, per guardare con le facce schiacciate contro il cristallo i ricchi che mangiano. Si fanno fotografare con la ragazza sullo sfondo dell'atrio, per sembrare ricchi. Io, il prigioniero della memoria, faccio un ultimo tentativo, vado alla vecchia ambasciata americana, dove 20 anni or sono, in queste stesse ore, 200 mila disperati con fasci di inutili dollari in mano, si accalcavano contro i cancelli spinti via dai calci dei lucili dei marines per buttare i figli sugli elicotteri. Sarà diventata una balera? No. Il teatro finale della disfatta yankee, non è neppure una balera. Non è nulla. E' una casa di spettri stanchi, un immenso quadrilatero di mura scrostate, di edifici cadenti, di giardini incolti, che i vincitori non hanno mai requisito e gli sconfìtti non hanno mai rivendicato, come se nessuno volesse più saperne niente. C'è soltanto una vecchina con il cappello di paglia a cono che mi vede e mi zampetta incontro, scoprendo in un sorriso i denti anneriti dalla noce di betel, che i vecchi qui ancora masticano. Hallo! Vuoi comprare dogtags, targhette di riconoscimento di soldati americani morti? No, grazie. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti. Nel febbraio '94, quando Clinton annunciò la fine dell'embargo commerciale, in centro dipinsero subito tre enormi lettere in stampatello con la vernice blu. Erano una «I», una «B», una «M»: IBM. Le pitturarono su un tetto, come naufraghi, perché fossero visibili da quel cielo verso il quale gli americani erano fuggiti, 20 anni or sono e dal quale torneranno. Senza il fucile. Senza più Apocalisse. Vittorio Zucconi (1,'Continua) Sulla piazza dove si davano fuoco i bonzi sfreccia un esercito di Honda Per l'anniversario è annunciata Joan Baez ma il pubblico vorrebbe Madonna Nelle strade neppure un'effigie con la falce e il martello ma manifesti anti-Aids: segno del ritorno delle prostitute Ho Chi Minh Il leader del Vietnam del Sud, Minh ^JÉt^-V HB^fe«*<V^ tk *0" li ^Hras, I" IH Immagini della Saigon di oggi Un esercito di moto e risciò e negozi di bibite occidentali compresa la Coca-Cola simbolo del vecchio nemico