Anghelopoulos odissea fra le rovine d'Europa

F «Lo sguardo di Ulisse» dedicato a Volontà Anghelopoulos, odissea fra le rovine d'Europa EKeitel racconta la sua esperienza «Ho conosciuto l'orrore della guerra» BELGRADO DAL NOSTRO INVIATO E' dedicato a Gian Maria Volontà il film che Anghelopoulos sta finendo in questi giorni a Belgrado ma che è già stato scelto per il Festival di Cannes. Strano destino quello di Volontà: è stato il primo attore ad essere scelto da Anghelopoulos che voleva lavorare con lui fin dal tempo di «Alessandro il Grande», ma è morto in un paesino della Grecia dopo appena una settimana di lavorazione, lasciando un vuoto insostituibile e alcuni metri di pellicola già prenotati da Gillo Pontecorvo per l'omaggio che gli dedicherà la Mostra di Venezia. «Lo volevo per il ruolo del conservatore della cineteca di Sarajevo, l'intellettuale che preserva la nostra memoria. Ho dovuto sostituirlo con Erland Josephson, bravissimo ma molto diverso da lui, meno romantico». Il titolo, «Lo sguardo di Ulisse», viene dallo scultore Manzù: la figlia dell'artista confessò a Anghelopoulos e a Tonino Guerra che stavano tentando di scrivere una versione contemporanea dell'Odissea, che il padre prima di morire avrebbe voluto scolpire lo sguardo di Ulisse, simbolo dell'universale voglia di conoscenza. L'operazione è grandiosa. Raccontare, in un solo film, i cent'anni di storia dei Balcani dall'assassinio di Sarajevo che aprì il secolo con la Grande Guerra fino allo smembramento della Jugoslavia che oggi lo chiude. E raccon- Harvey Ke.tel tare insieme la storia del cinema dai brevissimi spezzoni dei fratelli greci Manakias, contemporanei dei Lumière, alla crisi creativa di un regista europeo dei nostri giorni emigrato in America incontro al successo. Harvey Keitel è A, il protagonista. A come prima lettera dell'alfabeto, come autore e come Anghelopoulos. E' lui il regista greco che, riapprodato in patria, si inette alla caccia di due bobine mai sviluppate dei fratelli Manakias nella illusoria speranza che la vista di quei frammenti di pellicola possa restituire al suo occhio l'innocenza del primo sguardo sulla realtà. Quel viaggio lo porta avanti e indietro nei Balcani, attraverso Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania, fino all'arrivo a Sarajevo, città martire di quest'Europa disfatta. E avanti e indietro nella sua vita, attraverso l'incontro con Calipso, Penelope, Circe e Nausicaa, le quattro facce della donna alle quali è stato dato un unico volto, quello dell'attrice Maia Morgenstern. Sul set si parlano quattordici lingue, dall'inglese al croato. Le riprese sono durate oltre un anno, in mezzo a difficoltà incontrollabili. Harvey Keitel, attore riportato ai massimi fasti dal cinema di Jane Campion, Abel Ferrara e Quentin Tarantino, spiega di aver accettato alla prima lettura del copione. «La fatica non mi spaventa», ha risposto ad Anghelopoulos che voleva metterlo alla prova, «Ho fatto il marine: so sopportarla». Adesso però, dopo tanti mesi di lavoro, confessa: «Per la prima volta nella mia vita ho girato per le strade in mezzo a cadaveri di bambini uccisi consapevolmente da uomini civilizzati. Che altro c'è da aggiungere a quest'orrore?». Keitel ha la faccia disfatta di chi ha visto tutto ma gli occhi cambiano continuamente espressione come un cielo attraversato dalla nuvole. Questo film, dice, lo ha riempito. «Perché sono andato indietro fino all'origine dei racconti mitologici. Perché mi ha riportato nella terra da cui emigrarono i miei genitori. Perché mi ha permesso di discutere sui grandi problemi dell'umanità». E in fondo, al cinema, da Scorsese alla Wertmùller, lui ha sempre chiesto questo: poter diventare anche un modo di far politica. Ma che cosa vuole essere questo «Sguardo di Ulisse» per Anghelopoulos? Anghelopoulos è il più grande regista della Grecia e uno dei più grandi del mondo. Però è anche un intellettuale e un poeta: i suoi film significano sempre tante cose. «Stavolta mi interessava soprattutto riflettere sull'intolleranza: culturale, religiosa, etnica, di classe. A questo punto comunque non lo so più: il film mi ha preso la mano, mi ha condotto avanti e indietro nei secoli». E racconta la storia di un giornalista occidentale in Bosnia, sorpreso perché chiunque passava davanti a un orinatoio faceva atto di fede con un saluto. «E' perché prima qui c'era una chiesa ortodossa, poi ci fu una moschea, poi una chiesa cattolica costruita dagli austriaci, infine Tito volle abbatterla e farvi un orinatoio pubblico. Ma la memoria della gente è più forte di ogni ideologia e il posto resta per tutti un luogo di culto». Nell'immenso hangar dell'aeroporto di Belgrado, Anghelopoulos gira l'ultima scena di questo suo film di tre ore, con uno dei suoi famosi, lunghissimi «piani sequenza». E' una scena straziante, senza lacrime e senza sangue. Keitel, Maia Morgenstern e la famiglia di Erland Josephson passeggiano sul lungofiume di Sarajevo, avvolti dalla nebbia che dovrebbe proteggerli dai cecchini. I bambini corrono avanti. Keitel si ferma. Gli altri proseguono. Tre spari e sono tutti morti. Simonetta Robiony Harvey Ke.tel