PAVAROTTI Oggi Otello domani contadino

Le confidenze del grande tenore, che compie 60 anni e programma il suo futuro lontano dalle scene. Ma intanto prepara la sfida più difficile Le confidenze del grande tenore, che compie 60 anni e programma il suo futuro lontano dalle scene. Ma intanto prepara la sfida più difficile PAAROTTI Oggi Otello domani contadino ~7\] UAND'ERO bambino, I I dormivo in cucina», mi I I racconta Pavarotti. «D'in1 I verno era piacevole. Mi —VJ cantavano la ninna-nanna V il ragù avanzato dalla cena e il mesto crepitio di qualche caldarrosta dimenticata sulla stufa. La casa era piccola. "Se viene un ladro, se la porta via dentro un fazzoletto", diceva mia madre. Papà Fernando faceva il fornaio. Si alzava quando l'alba era ancora clandestina e cantava "Una furtiva lacrima" con una bella voce da tenore, fragrante e felice. Io gli rispondevo, da sotto le coperte, "negli occhi suoi spuntò", con una voce bianca ma che aveva il colore del contralto. "Fai piano che se no svegli la mamma", brontolava. La sera, quando tornava dal lavoro, papà parlava di opere, di battaglie fatte con armi di latta, di soprani grandi come piramidi. Io spesso sognavo che fosse Giuseppe Verdi a svegliarmi, facendomi il solletico con la barba. La mattina mi vestivo in fretta e furia per andare a giocare in un grande cortile pieno di case popolari. Le donne aprivano le finestre e colava un forte odore di ragù. Io lo respiravo e così mi sembrava di mangiare due volte! Poi mi mettevo a cantare, ma la gente protestava: "Smettila! Chi credi di essere, Beniamino Gigli?"». Estate di qualche anno fa. Siamo sotto un ombrellone, all'Arena di Verona in platea. Pavarotti mi parla smozzicando un panino con la mortadella. «Il pane di casa mia era più allegro. La mortadella è magra, rassegnata, sempra a dieta. A Modena ha gli occhioni di ciccia, si disfa in bocca». Abbiamo sospeso una prova del Trovatore perché sta scendendo una pioggerellina antipatica, che picchia in testa e fa male. «Sèi 'sempre legato alla tua città?», gli chiedo. Mi guarda male. «Parli come un baritono. Più giro il mondo e più le voglio bene. La vedo poco. Le ho lasciato in consegna mia moglie Adua, le figlie Lorenza, Cristina, Giuliana. Ma appena posso ci ritorno. Anche per bere il mio lambrusco che sarà anche un vino stupido, ma ha il vapore che assomiglia al fiato di un neonato, tanto è soffice: affumica la gola, senza sporcarla». Le nuvole in arrivo dal lago sembrano di pessimo umore. Sono arcigne, brontolone, mi ricordano gli aerei della guerra. «Forse è il caso di andar su», dico. Spalanco la sciarpa di Luciano che è eterna, come certe gallerie ferroviarie. Con una sciarpa così il tenore appare decorato da una Coppa dei Campioni, tipo Juventus o Milan. Sul palco, brillano d'acqua alcuni cavalli che avevo reclutato per la scena della battaglia. Brucano il legno del palco sperando in qualche filo d'erba. Li sorveglia un mangiafuoco di nome Osiride, dalla barba inquieta e bruciacchiata. Pavarotti si avvicina alle bestie, le accarezza quasi fossero gente di casa. «Vuol montare, signor tenore? - gli chiede Osiride -. Le consiglio Alida: noi la chiamiamo così perché assomiglia alla Valli, sa, l'attrice». Luciano balza subito in sella come un esperto cow-boy. Sembra che la pancia sia volata in cielo. Alida scalpita però lui la tiene a bada. «Mi ricordi John Wayne - gli grido - ma vieni giù prima che qualche indiano invidioso ti faccia fuori». «Mi piace di più Gary Cooper», risponde, mentre Alida s'impenna davanti al golfo mistico. Poi si decide e scende. «Vado nei matti per i cavalli. A Modena ne ho uno, vecchio, irlandese. Con la groppa ampia e maestosa. Montare Alida mi ha fatto venire il magone». L'altoparlante annuncia che la prova è definitivamente rimandata perché la burrasca è proprio sopra di noi, con il suo fagottone di lampi, tuoni, pioggia. «Andiamo a cena», consiglia Luciano. «Voglio buttar via quel sapore di mortadella anziana». Il ristorante è quasi pieno, ma il tavolo per sta, non parla sempre di do o di si bemolle. Una volta ne ho conosciuto uno, cileno, piccolo e pelato. "Mi chiamano peritonite perché con un mio acuto sarei capace di bucare anche gli intestini". Dicono che i tenori hanno il cervello piccolo, sempre in avaria per colpa delle note alte. Forse hanno ragione». Ha attaccato con calma la terza scodella di pasta e fagioli. «Ne invidi qualcuno?». «Uno forse. Franco Corelli. Per via del fisico. Quando cantava lo chiamavano coscia d'oro perché aveva le gambe sterminate, stava bene in calzamaglia. Aveva anche la criniera avventurosa, come Errai Flynn. E tanta voce. Poi sono amico di Pippo Di Stefano, che ha la forza di cantare ancora, e bene, con quei suoni larghi, aperti, che prendono aria da tutte le parti». Siamo in piazza delle Erbe. La tempesta si è allontanata, i tuoni hanno una punta d'ernia, sono un po' affranti. Ci fermiamo davanti a una baracchina che vende i gelati. Luciano se ne fa dare uno immenso, mi ricorda un mappamondo di crema e cioccolato. Lo gusta adagio. «Vedi, il gelato pulisce la gola, quasi come il lambrusco». La città è deserta: qualcuno saluta Pavarotti e gli chiede un autografo. «Hai mai paura di aver perso la voce?». Luciano si blocca. «Tante volte. Ho degli incubi. Mi sveglio la notte. Apro la bocca. Non esce niente. Ma dove si è cacciata, la maledetta? Mi alzo, spalanco le persiane, tento un vocalizzo. Niente. La cerco nel bagno, nel salottino. E' svanita, come neve al sole. Fatico anche a parlare. Poi mi chino sotto il letto... Finalmente, per miracolo, me la ritrovo addosso. Tento un acuto. Mi riesce. L'incubo è finito». «A proposito di letto. E' vero che prima di una recita è proibito fare all'amore?». Luciano ridacchia. Si accarezza la barba. «Dipende. Dicono che faccia male al diaframma, che lo faccia emozionare. Tutte balle. Anche gli sportivi, quando vanno in ritiro... Anche Coppi, insinuavano, era in continua astinenza. Mica vero. Io ho saputo di certe nottate di Fausto... Beh, lasciamo stare... Certo, il tenore non deve sciuparsi tra le lenzuola. Ma, come insegna il mio amico Di Stefano, uno non può scappare dai piaceri della vita. Il vero rischio è che escano delle note un po' innamorate, Qui sopra appena flebi- Placido Domingo li: ma con nei panni di tanta vita, Otello, a sinistra dentro...». Giuseppe «Quando Di Stefano smetterai di cantare?». «Mi metto a fare il contadino. La terra mi commuove. Appena arriva il tramonto - quei bei tramonti caldi che scendono dalle mie parti - è bello vangare, sporcarsi le mani, piantare qualcosa. Poi andare nella stalla a salutare i cavalli, a canticchiare qualche romanza non per il pubblico ma per loro... E se la voce fa un po' fatica, se ci scappa anche la stecca, chi se ne frega, finalmente... Prendere a calci tante paure... La Scala, per esempio. Un gran teatro, il più grande di tutti. Però quando entri dentro il cuore batte più forte, ti chiudi in camerino per non vedere nessuno: le mani, qualche volta, cominciano a tremare. E se in palcoscenico non trovo un chiodo piegato è una mia mania - penso che la Scala mi caschi addosso, mi frantumi...». «Smettila, Luciano. Hai vinto sempre: o quasi. Non fu alla Scala che Karajan ti disse che eri meglio di Caruso?». A Pavarotti non piace essere lodato. «Era di buon umore, il maestro. Caruso è nella leggenda: lasciamolo stare». La passeggiata è finita. «Domani prova alle 19», gli dico. «Ci sarò risponde - basta che tieni lontana la bufera. Ma se vuoi, ci posso cantare dentro: cosi, per il gusto di mandarla in bestia». Ride impetuoso, sereno. Sulla porta incontra un altro tenore: Carlo Bergonzi. Lo abbraccia. Bergonzi, che è piccolo, scompare dentro la sciarpa di Luciano. Anche i tenori hanno un'anima, direbbe qualcuno. Dopo molto tempo, gli ho telefonato. E' in America del Sud, tornerà a Modena per Pasqua. Due giorni, poi via. «Luciano, ho letto che sei entrato nel Guinness dei primati. A Berlino, per Elisir d'amore, hai avuto un applauso lungo un'ora e sette minuti. Sei uscito alla ribalta, per ringraziare, 165 volte. Non me l'avevi mai detto...». Un silenzio, dall'altra parte del mondo. Che sia caduta la linea? «Luciano», grido nella cornetta. «Lo sai che io mi vergogno di certe cose. A forza d'inchinarmi per ringraziare, mi si è anche slogata un po' una spalla. Alla fine hanno smesso, perché mi scappava la pipì e mi sono nascosto nel cesso...». Mi arriva la risata che spacca l'orecchio. «Tra un po' compi sessantanni. Qualche mese e poi...». «E poi si ricomincia... In agosto sono a Hiroshima. Canto la Messa di Verdi, per ricordare quel tragico anniversario. Adesso ti saluto: sto studiando Otello. L'ho eseguito in concerto con Solti, ma vorrei portarlo in scena. Per dimostrare a me stesso che so anche recitare, che non sono soltanto un pirla con la voce. Ho l'età giusta per farlo. Adesso che comincio a intravedere qualche tenebra consolante nel colore della voce m'è venuta la voglia matta di giocare in scena con Otello: magari dopo averlo studiato con Gassman, se avesse voglia di essermi vicino per spaccare l'eterna immobilità dell' "illustre te| nore". Tenterò di buttare al macero una ventina di chili senza perdere la gioia di vivere. Il forziere I pieno di do di petto lo lascerò alle j mie figlie, pregandole di scartare I quelli un po' rassegnati e di lucidare le note buone e felici. Sai cosa diceva quel tenore cileno? "Dopo aver fatto tremare i lampadari, ho cominciato a perforare le gocce di cristallo, trasformandole in giganteschi orecchini...". Mi sta venendo un dubbio: che i tenori siano anche un po' cretini? Ti ho fatto mandare da Adua una cassa di lambrusco. Lascialo depositare. Poi bevilo, adagio, sorso dopo sorso. E se ti viene un ruttino, fallo. E' bello, da vecchi, ritornare un po' bambini». Sandro Bolchi «Studio il "Moro", voglio dimostrare a me stesso che so ancora recitare. Adesso ho l'età giusta» , vecchio, irlandese. Con la groppa ampia e maestosa. Montare Alida mi ha fatto venire il magone». L'altoparlante annuncia che la prova è definitivamente rimandata perché la burrasca è proprio sopra di noi, con il suo fagottone di lampi, tuoni, pioggia. «Andiamo a cena», consiglia Luciano. «Voglio buttar via quel sapore di mortadella anziana». Il ristorante è quasi pieno, ma il tavolo per Adesso ho l'età giusta» pfagioli. ENICE ia i Puritani Fenice diventa una belva: una graam Vick e Richard Hudson, regista e oi tocca al direttore Nello Santi. E' ni dalla mediocrità. Ha saputo con senza perdere la magnifica agilità. mwell e della guerra civile inglese a zioni dell'Inghilterra puritana a far tra affetti privati e necessità politiovimenti impacciati o esagerati, coaversare tutto il palcoscenico e butenzione. In «Suoni la tromba» Giorgo brindisi ininterrotto della storia Stuart Neill nel ruolo vocalmente americano trasfigura la pesantezza cali piuttosto seducenti. Si ritaglia i o D'Artegna (Giorgio) e Giorgio Zanrdono regia e direzione, [s. capp. vHteMttcsatcuncflffAinvMnQPnOGDfcmcbpltppft Qui sopra Placido Domingo nei panni di Otello, a sinistra Giuseppe Di Stefano

Luoghi citati: Adua, America Del Sud, Berlino, Hiroshima, Inghilterra, Modena, Verona