La veglia dei nomadi al capezzale di Sengul
La veglia dei nomadi al capezxale di Sengul FRATELLINI IN OSPEDALE La veglia dei nomadi al capezxale di Sengul PISA ELLO stesso momento in cui i carabinieri prelevano Emanuele Caso e lo conducono a palazzo di giustizia, dove viene interrogato come sospettato per il ferimento dei due zingarelli, Sengul esce dalla sala operatoria, dopo sei ore di intervento. Le hanno aperto la fronte, tra gli occhi, per estrarre una palla di ferro scura e grossa come una biglia da gioco. Quando il pacco bomba è esploso le è entrata dal naso ed è risalita verso il cervello, danneggiando gli occhi, che sono chiusi e feriti. Quelli li opereranno domani, o un altro giorno, quando la ragazzina sarà in grado di sopportare nuovamente il bi- sturi. Anche suo fratello Emran ha subito un piccolo intervento: gli hanno estratto dalla mano una scheggia di legno lunga quattro centimetri. Neppure per lui il calvario chirurgico è finito, ma le sue condizioni non sono preoccupanti. I fratelli combattono per rinascere in due ospedali lontani. Piccole carovane di nomadi fanno la spola tra il Santa Chiara dove è ricoverata lei e il Cisanello, dove sta lui. Sono arrivati da tutte le regioni d'Italia, si sono accampati alle porte di Pisa e percorrono la tratta da ospedale a ospedale su auto scassate targate Roma o Foggia. Trasportano i genitori o i fratelli che si danno il cambio per assistere i due feriti. Ieri son rimasti fuori della sala operatoria dove era Sengul per le sei ore dell'intervento. Si sono raccontati storie su di lei, che era una piccola principessa gitana, la più bella della sua stirpe, dicono, già promessa sposa. Una bellezza, raccontano, vederla ballare durante le serate di festa battendo il ritmo con le mani sui tamburelli. E fa male ricordarle, adesso, le mani sui tamburelli. Alla fine i medici non hanno sciolto la prognosi. Occorreranno almeno altri dieci giorni per dichiarare Sengul fuori pericolo. Bisognerà verificare l'eventuale insorgere di infe¬ zioni. «Un grosso frammento della scatola cranica ha toccato le meningi - ha detto il dottor Piergiogio Caciagli, direttore dell'istituto di neurochirurgia -. Con l'intervento di oggi abbiamo dovuto operare una ricostruzione e fare in modo che siano evitate infiammazioni». Ai parenti che lo guardavano ansiosi non ha potuto dire niente di più tranquillizzante. Più sereni i visitatori di Emran, che giace in un lettino del reparto di chirurgia plastica. Dorme accanto a una delle sorelle. Lei gli accarezza la testa solcata da bruciature all'attaccatura e sulla nuca. Lui si rigira nel sonno e si lamenta. La i sua foto con l'espressione sof¬ ferente sta facendo il giro del mondo. Intorno al letto ci sono fiori e giocattoli mandati da gente comune. Dentro di lui, incubi che la sorella cerca di calmare. Avvenimenti come questo sollecitano la solidarietà come la follia. Mercoledì sera alle nove una donna di circa quarantanni si è presentata al posto fisso di polizia chiedendo di vedere il piccolo Emran per consegnargli un pacco dono. Nessuno che abbia pensato a un possibile replay dell'attentato al semaforo. Via libera alla misteriosa signora che è rimasta accanto al bambino, nella camera dove sono ricoverate anche cinque donne, fino alle due di notte, accarezzandolo, prendendolo in braccio, finebé ha cominciato a fare i bagagli per portarselo via. Solo a quel punto le forze dell'ordine sono intervenute, allontanandola a forza mentre dava in escandescenze. Il bis si è realizzato nel primo pomeriggio di ieri, quando all'ospedale si è presentato un lavavetri marocchino, visibilmente ubriaco, gli abiti macchiati di vino e sangue. Ha cercato di convincere la sorella di Emran a rivelare il nome dell'attentatore: «Voi lo conoscete! Io lo so, ma non volete dirlo!», ha urlato mentre se ne andava barcollante, messo in fuga dalle sirene della due auto della polizia che entravano nell'ospedale. Solo allora Emran ha potuto nuovamente dormire. A sera la processione accanto al suo letto è ripresa. I rom sono arrivati portando piccoli regali e una notizia: «Forse li hanno presi o ci sono vicini». Nessuno sorrideva, (g. rom.]
Persone citate: Emanuele Caso, Piergiogio Caciagli
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