Pasquarosa il miracolo della musa contadina

Prima ignorante modella, poi colta pittrice amata dai grandi del '900: ora una mostra riscopre la Marcelli Prima ignorante modella, poi colta pittrice amata dai grandi del '900: ora una mostra riscopre la Marcelli Pasquarosa, il miracolo della musa contadina SROMA IOCAVA a bocce con Pirandello, Paola Masino, Bontempelli. Aveva fatto la prima elementare. Alla sua prima mostra la regina Margherita comprò un suo quadro. Era bellissima. Dipingeva maneggiando tubetti, pennelli, matite, spatole, come se fossero giocattoli meravigliosi. Era una cuoca straordinaria, e alla sua tavola nella bella casa di via Condotti sedevano De Chirico e Savinio, Emilio Cecchi, Corrado Alvaro, Cagli, Mafai, Levi, Guttuso, Moravia, Papini, Capogrossi, Sergio Tofano e - durante il fascismo Bottai, i Pavolini, Margherita Sarfatti, ebrei, antifascisti, fuorusciti. Leggeva Goethe e i Fioretti di San Francesco. Della corte che la circondava, il marito - Nino Bertoletti, pittore di talento, e ricco, bello, colto - era il suo più strenuo ammiratore, un po' Pigmalione un po' manager. Si chiamava Pasquarosa Marcelli. A lei, dal 17 marzo prossimo, la galleria Mares di Pavia dedica una mostra curata da Mario Quesada che - insieme con Pier Paolo Pancotto - è anche l'autore di un ricco libro-catalogo. Cinquanta opere, dipinte fra il 1913 e il 1962, raccontano il «caso» di una donna che, senza neanche i rudimenti del disegno e della pittura, s'impone d'impeto come una rivelazione, «fa perdere la testa a una generazione di critici e artisti», e per tutta la vita resta fedele a se stessa, al suo originario apparente primitivismo. Ciociara, figlia di contadini, nasce nel 1896 ad Anticoli. Nel 1912 viene a Roma da una zia che fa la modella e anche lei incomincia a posare, nuda. Ha una figura da adolescente, capelli tizianeschi, volto pieno, una femminilità imperiosa e casta. Si trasferisce in città e porta con sé un manuale Artusi e la Bibbia. Sa scrivere a malapena: la sua grafia quasi si aggrappa - sghemba - al foglio. Con Nino Bertoletti va a vivere a Villa Strohl-Fern, «una specie di villaggio per artisti» alle spalle di piazza del Popolo. Hanno 17 e 24 anni. E' il 1913. Tutto il «popolo» della Villa Spadini, Trombadori, Tozzi, Carlo Socrate - tiene sotto osservazione questa giovane strana coppia. Lui è di una famiglia di commercianti, ha studiato in Italia e in Germania, ha lavorato a fianco di Sartorio e Cambellotti, ama l'architettura e le arti applicate. Predilige Cézanne e la pittura antica, parla correntemente il tedesco e colleziona opere di Tiziano, Correggio, Goya, Fragonard. E' elegante, snello. Abiteranno in grandi appartamenti, con studio, biblioteca, salotti, sale da pranzo, camere per la servitù. Andranno in vacanza a Nizza e sulla costa amalfitana, in Austria e in Svizzera. Il suo studio lui lo avrà sempre fuori casa. Lei no, lavorerà sempre vicino ai figli, alla cucina e le cameriere. Materna e pacifica, capace di grandi gaffes commentate con indulgenza dagli smaliziatissimi amici di famiglia, non avrà mai dubbi sulla sua vocazione. «Io sono un'artista!» diceva, neppure toccata dai rovelli dell'appartenenza a questa o quella corrente. Il suo talento lo scoprì subito. Un giorno prese il tubetto dei colori e volle provare a fare quello per cui tutti quegli uomini si appassionavano tanto. Ne uscì un piccolo nudo dove l'imperiosità del colore suppliva all'esilità del segno: una figura leggera di don- na circondata da fiori carnosi, alberi e cespugli dalle dimensioni sconclusionate ma di una vividezza indiscutibile. Era epoca di avanguardie, di correnti artistiche che si scontravano, di ansia di nuovo. In quel 1913 la prima Secessione Romana aveva portato lo scompiglio nelle acque stagnanti della pittura accademica. Pasquarosa incominciò a dipingere nel momento in cui la forma informe, l'esaltazione del colore, il gusto del primitivismo acquistavano valore e dignità. Bertoletti e gli amici la incoraggiarono. Tutti le davano consigli. Chi temeva che una maggiore perizia le facesse perdere la freschezza iniziale, chi insisteva perché il suo stile si affinasse. Lei diede ascolto soltanto a se stessa, e non abbandonò mai né i temi che le piacevano né il mondo che aveva intorno. Nel '15, alla Terza Esposizione Internazionale d'Arte della Secessione - apertasi alla presenza di re Vittorio Emanuele - espose cinque quadri, nature morte e fiori, che crearono il «caso» Pasquarosa. Solo un critico, G. Marangoni, si indignò davanti a «certi "Garofani" papaverici capaci di far morire d'accidente un visitatore di buon gusto». Per gli altri, da Emilio Cecchi alla regina Margherita, «quest'artista che dipinge naturalmente come se compisse una funzione naturale» fu «un fenomeno degno di studio». Quello stesso anno Pasquarosa e Nino si sposarono. Con il solo rito civile (le nozze religiose sono del '27). Pochi mesi dopo nacque il primogenito, Giorgio. La loro prima casa fu un appartamento che Pirandello gli cedette, presso Villa Torlonia, nella stessa villa dove abitava e sarebbe morto. L'intimità fra le due famiglie era stretta. Pasquarosa riusciva a non scatenare la gelosia della moglie del drammaturgo. Facevano insieme vacanze e feste. Il secondogenito, Carlo Francesco, ricorda un Natale a Parigi, nel '29, con Bontempelli e Paquarosa che addobbavano l'albero, mentre Pirandello lo teneva in braccio e gli raccontava storie: gli avrebbe fatto un regalo bellissimo, un carro di pompieri francesi. Le mostre (nel '29 a Londra, insieme con De Chirico, con catalogo firmato da Cecchi; nel '32 in Grecia e negli Stati Uniti), i premi, i viaggi all'estero erano continui. Lei lavorava solo a casa sua, la mattina, senza però barricarsi dentro lo studio. «Cosa ne pensi? Come ti pare?» chiedeva a chi passava di lì. La prima guerra mondiale li aveva separati. Lei rimase ad Anticoli. Lui andò al fronte. Le mandava lettere piene di consigli - come riuscire a scrivere in riga, come rimediare ai colori che si seccano, come cercare una maestra per migliorare il suo italiano, come trovare cibo e colori, quali libri leggere - e affettuosità, pettegolezzi, sottili gelosie. Pure lei gli scriveva, in maniera scarna, con grafia quasi incomprensibile. I pennelli erano il suo linguaggio. E la cucina. E i cappellini colorati che si disegnava. E la sua maniera di incantare le persone che la frequentavano, senza farsi condizionare da tutti quegli uomini saccenti e spesso con il gusto della battuta perfidissima che la circondavano. Non si divertiva quando Mazzacurati chiamava Sibilla Aleramo «libro e maschietto» per irridere la sua relazione con un giovane poeta. Per lei era «Sibillona», un'amica. Come la prima moglie di De Chirico, Raissa. Come la pittrice Wanda Biagini, ebrea, che era riuscita a convertire al cattolicesimo. Era molto religiosa, a modo suo. Aveva un moralismo antico, quasi paesano. Amava la Manzini ma ce l'aveva con il suo compagno, "™ Enrico Falqui, perché aveva lasciato la moglie. La turbavano gli omosessuali. Non le faceva piacere vedere Sandro Penna, di cui pure apprezzava i versi. E quando un amico della sua corte, già sposato e padre, fece una scelta omosessuale, trovava mille scuse - spesso ingenue e ridicole perché i figli non rimanessero soli con lui. Condivideva i sogni e le speranze del progresso, ma non amava il comunismo. «Mai la pittura di Stato! Come è possibile che un artista sia obbligato a dipingere questo piuttosto che quello? Io voglio dipingere come mi pare» ripeteva. Non smise mai di essere al centro del salotto artistico-letterario romano. E di dipingere. E di esporre. E di essere lodata. Alle pareti di casa il marito voleva ci fossero soltanto delle sue tele. Ne era lusingata. Ma si dispiaceva per l'oblio che era sceso su Nino. Si era autoescluso. Cadeva sempre più in depressione, lavorava solitario e in silenzio. Quando si spense, nel '71, il suo studio era pieno di opere che nessuno aveva visto. Lei volle, per testamento, che i quattro nipoti avessero ciascuno 14 tele sue e 36 dell'amatissimo marito. Morì nel '73, a Camaiore, per un collasso improvviso. Liliana Madeo Un talento scoperto per caso, coltivato fra figli e servitù Andava in vacanza con Pirandello, cenava con De Chirico e la regina Margherita adorava i suoi quadri che NonMazSibimasla sgiovera ca. gliesa. WancheverEmomopaeMacon"™ Eri Da sinistra, «Natura morta con ventaglio», del '22 Sotto, Pirandello In basso a destra, Pasquarosa Marcelli Da sinistra, Giorgio De Chirico e Alberto Savinio spesso ospiti di Pasquarosa nella casa di via Condotti