«Non si può imporre il test» di Bruno Ghibaudi

«Non si può imporre il test» «Non si può imporre il test» 7/ ministro: neanche a chi lavora nella sanità IN DIFESA DELLA PRIVACY SROMA E il cittadino non è d'accordo nessuno può sottoporlo ad un test di sieropositività al virus dell'Aids. E questo vale per i pazienti come per i medici e gli infermieri, per chi deve sottoporsi ad un intervento chirurgico o per i detenuti, per le partorienti e per i neonati oppure per chi appartiene ad una categoria a rischio. Il ministro della Sanità Elio Guzzanti è stato categorico: non si possono eseguire indagini cliniche di questo genere senza un esplicito consenso dell'interessato. E' una precisazione che arriva mentre l'emozione e la paura per il caso del chirurgo diventato sieropositivo dopo essersi tagliato un dito mentre operava un malato di Aids non si sono ancora spente. E segue di poche ore l'esposto presentato dalla Lega Italiana per la lotta all'Aids (Lila) contro tre medici torinesi che avrebbero sottoposto i loro pazienti a test anti-Hiv in modo sistematico e senza consenso. Da almeno quattro anni il test di sieropositività per gli operatori dei servizi pubblici oscilla come un pendolo fra necessità opposte: da una parte la tutela della salute di chi teme di essere infettato, dall'altra il diritto alla riservatezza di chi non vuole affidare ad una cartella clinica o alla memoria di un computer gli aspetti più intimi della propria vita. Da un verdetto di sieropositività alla discriminazione, si dice, il passo continua ad essere molto breve. Due diritti conflittuali? La questione resta aperta e il pendolo, c'è da giurarci, non ha ancora trovato il punto d'equilibrio. A spingerlo verso la tutela dei terzi, nell'ottobre 1990, era stato un decreto legge (n. 276 del 4/10/90) che definiva obbligatorio il test anti-Hiv per chi desiderava arruolarsi nell'Esercito, nei servizi di Polizia e nel Corpo dei Vigili Urbani. Ma la Commissione Nazionale per la Lotta all'Aids, invitata ad esprimersi, non aveva avuto esitazioni: il test sarebbe inutile sul piano scientifico e discriminatorio sul piano morale e pratico. E soprattutto pericoloso: a causa del «periodo finestra», non identificabile dagli esami attuali, un referto di negatività potrebbe diffondere false certezze. Nel gennaio 1992 alcuni parlamentari socialisti hanno proposto di modificare l'articolo 5 della legge 135 del 1990 che garantisce l'anonimato ai sieropositivi. Ma l'allora ministro della sanità De Lorenzo aveva tagliato corto: la riservatezza e l'anonimato previsti dalla legge non sono in discussione. Poi, come un sasso nello stagno, è arrivata la sentenza della Corte Costituzionale (2 giugno '94) che dichiarava obbligatorio il test per chi lavora in una struttura sanitaria. Pena il licenziamento. A sollevare la questione era stato il pretore del lavoro di Padova, chiamato a giudi¬ care il ricorso di un'infermiera che per aver rifiutato il test era stata sospesa dall'impiego. Ma la Commissione Anti Aids, investita della questione dall'allora ministro della Sanità Raffaele Costa, aveva rifiutato le conclusioni della Corte. «Tutte le conoscenze raccolte finora confermano che il rischio di contagio di cui parla la Corte non esiste». E oggi Guzzanti aggiunge: «Il rischio d'infezione per incidente professionale è molto basso, solo il 2 per mille delle infezioni hanno questa origine. E l'Italia, con i suoi 4 casi finora accertati, non fa eccezione. Una sistematica ricerca di anticorpi anti-Hiv su tutti i pazienti in attesa di intervento sarebbe ingiustificata sul piano scientifico e inutilmente costosa». Bruno Ghibaudi

Persone citate: Anti, De Lorenzo, Elio Guzzanti, Guzzanti, Raffaele Costa

Luoghi citati: Italia, Padova