«Vi prego salvate i miei figli»

«Vi prego# salvate i miei figli» «Vi prego# salvate i miei figli» La donna si dispera: adesso vogliamo giustizia UNA MADRE NEL DOLORE SPISA OLIDARIETA'? E che significa questa parola? No, l'unica cosa che chiedo è che mi aiutino a salvare i miei figli. Ho paura per loro. E ho paura per una giustizia che forse non ci sarà». Asya Dimitrovska è la mamma eli Singul e Emram, il più piccolo dei suoi otto figli. E' appena tornata dagli ospedali. Piange, si dispera, attorniata da un nugolo di bambini, molti sono suoi nipoti, unico segno di vita in questa zona che pare abbandonata da Dio. Lunghe distese di campi, qualche capannone industriale, soprattutto cumuli di rifiuti, calcinacci. E' qui che abita (ma è giusto usare questo termine?) la comunità slava di cui fanno parte i due piccoli dilaniati dal giocattolo bomba. Un casolare scheletrico, diroccato, vicino al piccolo e anonimo centro di Ospedaletto, periferiadormitorio di Pisa, a due passi dall'incrocio maledetto dove ogni giorno Singul, 13 anni, ed Emram, 3 anni e mezzo, insieme al fratello maggiore vanno per racimolare qualche spicciolo, sperando di intenerire automobilisti frettolosi. «Solidarietà? Che cosa è la solidarietà?». Continua a chiederselo Asya Dimitrovska, un volto che pare una maschera intagliata nel legno, una fascia rossa in testa a coprirle i capelli, le lacrime che faticano a sgorgare dagli occhi neri come la pece. Il suo dolore si manifesta attraverso una cantilena che mischia parole italiane a quelle della sua lingua. Non sa leggere né scrivere, non sa neppure quanti anni ha. Sembra vecchia, segnata. Uno dei suoi figli, la dolce Medika, 10 anni, portati con allegra fierezza, risponde per lei: «La mamma ne ha 35. E' bella la mamma. E' buona. Ma oggi è triste». Medika sa tutto, sa cos'è accaduto ai fratelli, ma le hanno insegnato a crescere in fretta, come accade a tutti i bambini che vivono ai margini. E' lei che bada agli altri piccoli, che risponde quando la madre si abbandona ad una sofferenza muta. E' lei l'unica a sorridere, in questa stanza spoglia e sporca, riscaldata da una stufa che è un barattolone arrugginito, puzzolente. Una stanca dove il sole non entra mai. Asya la guarda di continuo, la cerca, più delle altre donne, cognate, cugine, sorelle, che piangono il suo dolore. Dice di non conoscere il significato della parola solidarietà. Che strano. Perché è un sentimento così vivo, palpabile tra questa gente, unita in un intreccio che va al di là del legame di sangue e di terra. E' il destino stesso, uguale, che li accomuna. Profughi scappati dieci anni fa dalle macerie e dalla povertà della Macedonia, per ritrovarsi a vivere nelle stesse macerie, nella stessa povertà. Dieci famiglie di fede musulmana che tirano avanti fra sten¬ ti, senza speranza. Con un'unica certezza: la solidarietà fra loro, la partecipazione. Sanno dividersi tutto, anche il dolore. «Li ho visti i miei figli all'ospedale racconta Asya - il piccolo sta bene, la bimba no. Ho bisogno di coraggio, di tanta forza per andare avanti». «Il coraggio semmai - interviene una donna vicino - dovrebbe servirci ad andare via. Ma dove?». Nessuno risponde. Le donne si scambiano sguardi muti, quasi rassegnati. Asya si accende una sigaretta dietro l'altra: «Siamo qui da tanti anni e qui dobbiamo e vogliamo rimanere. Non so chi sia stato, non so perché l'abbiano fatto». Rabbia? Voglia di vendetta? «Chiedo solo che i miei figli si salvino. Chiedo questo e chiedo giustizia. Cosa faceva la polizia e dove era? Adesso dico a tutti i bambini: state attenti, dovete stare molto attenti». Fuori il figlio maggiore, Dimitri, 22 anni, ascolta senza dir niente, stringe i pugni, frena la rabbia e le lacrime. Con lui gli altri uomini della comunità, alcuni dentro auto di grossa cilindrata che stonano con la decadenza del posto, altri appoggiati alle roulotte che servono da camera da letto e da magazzino. Non parlano. Un dolore incredulo. Spetta alle donne il compito di educare i figli, di insegnargli cos'è, oggi, la paura. «E ora ne abbiamo tanta - mormora ancora Asya, con un gesto stanco -. Uno dei suoi cognati è appena tornato dall'ospedale per seguire le fasi del lungo intervento a Singul. Asya lo interroga: «Come sta?». L'uomo sospira: «Dobbiamo solo aspettare che ci dicano che è viva». Eppoi? Via, lontano? O qui, a sfidare la paura? «Resteremo qua - dice - e domani, e dopodomani saremo di nuovo in strada a chiedere l'elemosina. Non abbiamo altro da fare». Brunella Ciullini

Persone citate: Brunella Ciullini

Luoghi citati: Macedonia, Ospedaletto