Fidel, simpatico nemico di Foto Ansa

Fidel/ simpatico nemico Fidel/ simpatico nemico Tutto crolla, non il suo fascino IPERCHE' m un mio WASHINGTON «Ormai mi sento come i primi cristiani, e temo che finirò anch'io di^fimSjt vorato dai leoni» ^ÈF*|flfc (Fidel Castro, TiW-Ok A ■» me, febbraio '95) A perché è impossibile trovare Fidel Castro antipatico? Perché un mondo che ha seppellito nell'ignominia o nel sarcasmo tutti i suoi lugubri colléghi di ideologia e di prassi, che ha dimenticato e sepolto tanti tragici clown travestiti da guerriglieri, tributa invece rispetto, applausi, quasi tenerezza al vecchio, inaffondabile «barbudo», come hanno fatto Frangois Mitterrand e il vertice della povertà a Copenaghen? Non possono essere certamente i risultati a far dimenticare gli errori. Cuba lasciata sola con Castro, ma senza i sussidi sovietici, è un relitto economico alla deriva nel Mar dei Caraibi in attesa che la miopia americana si decida a buttarle un salvagente. La prostituzione, simbolo più ignobile dei vecchi regimi, toma a dilagare all'Avana e travolge anche i bambini, venduti ai turisti per 10 dollari, dopo le «jineteras», le ragazze che si concedono per un paio di jeans. I cittadini fuggono verso la Florida aggrappati a zattere di balsa e vecchie camere d'aria, respinti da Clinton perché sono ormai troppi. Il dollaro, la moneta del diavolo imperialista, domina l'esistenza quotidiana dei cubani (due dollari equivalgono a un mese di stipendio di un professore) e a Miami 0 losco boss dell'anticastrismo Jorge Mas Canosa già vende a speculatori i terreni e le case dell'isola, in attesa che il dittatore venga «divorato dai leoni». Persino l'organo del partito, Granma, non ce la fa più a uscire tutti i giorni per mancanza di carta e di inchiostro, non che sia una gran perdita per l'informazione. Ma alle soglie dei 70 anni (è del 1926), la barba ormai sale e pepe, la voce ancora roca nonostante il doloroso addio dato ai sigari per ordine dei medici, Fidel Castro Ruiz, il responsabile di tutto, il figlio di un emigrato galiziano che da 37 anni plasma Cuba a suo piacimento, sta tramontando circonfuso da un inatteso bagliore di gloria. Questione di sopravvivenza? Miracoli del tempo che trasforma ladri in benefattori, che fa dei nemici di ieri gli amici di oggi, basta aver pazienza, come dimostra anche la politica italiana? Anche, ma non basta a spiegare l'ultima apoteosi del patriarca rivoluzionario. Con i suoi 37 anni di governo, Castro è ormai il più longevo dei dittatori comunisti, dopo la non prematura scomparsa del coreano Kim II Sung, e la longevità porta in sé la radice del proprio riscatto. Ma il tempo non basta a riscattare tutto. Sono allora solidarietà ideologiche internazionali a tenere caldo il sole di Fidel? In piccola parte soltanto. Di marxisti impenitenti come lui, oggi, sono rimasti molto pochi anche nel Terzo Mondo, anche nell'America Latina dove le nuove guerriglie postmoderne, come gli Zapatisti in Messico, si affrettano a negare di essere marx-leniniste e le più vecchie, come Sendero Luminoso, sono screditate. E invece Castro non si è mai pentito. «Morirò marxista» ha detto appena due mesi or sono, e si può credergli. Neppure il gobarciovismo lo ha mai convinto, anzi, la sua inimicizia con il riformista del Cremlino fu leggendaria. Figuriamoci quella con Eltsin, che gli ha tagliato i viveri: «Eltsin è arrivato al Politburo a 50 anni per scoprire che non era più comunista - ha detto con ovvio disprezzo -. Io ne ho quasi 70 e non posso permettermi di cambiare bandiera. Non pretenderete che butti via tutta la mia vita?». No. Non si può. È non si può pretenderlo soprattutto perché insieme con la sua vita, con la sua ostinata coerenza, con la sua cocciuta fedeltà al fallimento, Fidel Castro Ruiz butterebbe via non soltanto la sua, ma anche una parte della nostra vita. Ed è forse in questa sua frase, nell'angoscia di chi non vuole, non può divorziare dalla sua storia come si divorzia da un vecchio coniuge, che sta il segreto della solitudine del patriarca rivoluzionario e della ammirazione che il mondo gli tributa. Castro ha fatto molte sciocchezze, ma ha detto molte verità. Ha portato il mondo vicinissimo alla guerra nucleare, chiedendo e accettando i missili sovietici, ma giustamente ammonisce da anni le nazioni ricche sui pericoli della «Bomba M», la miseria e l'indebitamento delle nazioni povere. Ha vissuto alle spalle dei disperati contribuenti sovietici per 20 anni («per fortuna il socialismo non ha vinto in Brasile» scherzavano amari i diplomatici sovietici costretti a finanziare Fidel) ma ha ridato a un isolotto appaltato da Batista alla mafia l'orgoglio di essere nazione e di sfidare l'America del Nord. Ha perseguitato oppositori, ma non è stato l'unico né il peggiore in quella parte della Terra. Per questo Castro non è più un uomo, un leader politico, un comunista sconfitto dalla storia e dalle leggi economiche. Castro è divenuto una nostalgia, un sentimento, un'icona del nostro tempo, alla quale è difficile dire addio. Chi ha Sognato con lui, chi è, come lui, un sopravvissuto della storia, un reduce da guerre perdute, non può tradirlo, senza tradire se stesso. Chi lo ha odiato, chi lo ha combattuto, era in fondo prigioniero dello stesso sogno castrista, guevarista, debrayista, era vittima della illusione che tutti i guai del mondo, tutti i pericoli, nascessero dall'ideologia comunista e dagli uomini che la in- camavano. Quando cadrà anche la barba di Fidel, quella barba che la Cia complottò insieme con la mafia per fargli cadere pensando che in essa risiedesse, come nei capelli di Sansone, il segreto della sua forza, sarà duro ma inevitabile ammettere che le ideologie passano, ma guerre e tragedie restano. Castro è l'ultimo muro di Berlino, è l'ultimo residuato di un tempo che sembrava semplice, di un mondo che appariva diviso secondo linee paurose ma almeno comprensibili, bianchi e rossi, «noi» e «loro», buoni e cattivi, chiunque fossero i buoni e i cattivi. Oggi, è il generale chiuso nel labirinto che lui stesso ha creato, e dal quale non può uscire. Potrebbe farlo soltanto a condizione di distruggere il labirinto e infine se stesso, come fece Gorbaciov. Non ne ha neppure più la forza. «Dovrei imporre tasse sul reddito ai cubani, per aiutare il bilancio dello Stato, ma chi riuscirebbe a fargliele pagare?» ha sospirato qualche mese addietro, ammettendo che ormai sta perdendo il controllo del Paese. Ormai è troppo tardi per tutti. Aggrappati a quella barba grigia che ci accompagna sulla scena del mondo da quasi 40 anni, andiamo a fondo con lui, applaudiamo nei suoi trionfi senili, celebriamo l'attaccamento alle nostre nostalgie. Gli resta aggrappata l'America, che pure potrebbe stritolare il regime castrista semplicemente rimuovendo l'embargo e permettendo l'invasione dei dollari, dei turisti, dei cubani emigrati che travolgerebbero quel che resta del «socialismo caraibico» in pochi mesi. Gli resta aggrappata la sua gente, i cubani, che non hanno più illusioni, ma non vedono alternative al grande «caballo», allo stallone, sia pure invecchiato, come lo chiama il popolo. E non abbiamo alternative neppure noi europei, orfani di grandi nemici e di grandi amici. In un tempo di formidabili mediocrità internazionali, il figlio dell'emigrato galiziano e della sua domestica, Lina, poi sposata, è almeno un «piccolo gigante». Non è colpa sua, se gli altri sono «nani». Vittorio Zucconi Tutti i suoi colleghi dittatori marxisti sono scomparsi nell'ignominia Lui riceve applausi dai potenti della Terra e dai mass media La barba è grigia il sigaro spento ma il carisma è intatto Se il comunismo sparisse anche a Cuba non resterebbe più nessuno a cui addebitare i guai dell'Occidente L'isola affonda ma il popolo non gliene fa colpa e anzi manifesta una messianica devozione ^fimSjt ^ÈF*|flfc W-Ok A ■» IIMiiÉi H I Fidel Castro con Mitterrand e con la moglie di questi Danielle [FOTO ANSA]