Shalamov, memoria dall'inferno

discussione. Un grandissimo libro, finalmente in Italia: purtroppo in edizione ridotta discussione. Un grandissimo libro, finalmente in Italia: purtroppo in edizione ridotta Shalamov, memoria dall'inferno Ma si può «tagliare» un capolavoro? wjiARLAM Thichenovic 1 / Shalamov, uno dei magli giori scrittori russi del ■ nostro secolo, prigionie" I ro deH'«inferno bianco» della Kolyma per quasi vent'anni - Kolyma viene anche definita la Auschwitz sovietica o comunista -, autore dei più di cento Racconti della Kolyma che come opera letteraria superano l'Arcipelago Gulag di Solzenicyn, nacque nel 1907 a Vologda, mori il 17 gennaio 1982 nell'«ospedale per psicocronici» a Mosca. Finalmente il suo capolavoro è uscito in italiano presso Adelphi - molto dopo le edizioni tedesca, francese, inglese, americana - in una scelta; per quanto ampia, 625 pagine, pur sempre una scelta, il che - trattandosi di un classico ormai della letteratura russa, disponibile ora in Russia in due volumi sorprende nella casa editrice milanese tanto giustamente nota per la sua serietà. Chi scrive, l'autore di Un mondo a pane (Feltrinelli), ne è talmente contento da voler rendere Shalamov un po' più vicino ai suoi presenti e futuri lettori in Italia. Da quando hanno cominciato a circolare in Russia, copiati a mano o battuti a macchina, i primi racconti di Shalamov, divenne chiaro che nella persona del reduce di Kolyma (quasi veni/anni, una cosa difficile a credere!) ora nato il più grande poeta del mondo concentrazionario sovietico. E' poco noto il fatto che dopo alcuni anni Solzenicyn, ormai deciso ad imbarcarsi nella gigantesca impresa dell'Arcipelago Gulag, invitò Shalamov a diventare coautore, considerandolo il massimo conoscitore dell'argomento. Shalamov rifiutò. Era già vecchio, stanco, malato, fisicamente logorato, e por giunta profodamente depresso dall'abbandono da parte della moglie e della figlia all'indomani del suo ritorno da Kolyma. Era rimasto solo al mondo, considerava quindi una vera fortuna il posticino caldo che gli era stato dato nell'ospizio per i poveri. Si rendeva perfettamente conto che, mettendosi a lavorare insieme a Solzenicyn, sarebbe diventato di nuovo oggetto delle vessazioni se non delle persecuzioni. Ma ci è pervenuta una frase della sua lettera di rifiuto a Solzenicyn, frase che fa capire la crudeltà della sua conoscenza di vita dentro il filo spinato. Suona pressappoco così: «Come mai, caro Aleksander Isajevic, nel vostro racconto sulla giornata di Ivan Denisovic, avete lasciato correre nel campo un gatto? Non sapete che appena apparso, un gatto sarebbe stato subito ucciso e divorato dai prigionieri?». E' questa crudeltà trattenuta e persino un po' ironica, ma allo stesso tempo altamente drammatica, che vive nei Racconti di Kolyma. Da una parte diceva: «Quello che ho visto io, un uomo non lo deve sapere, né vedere». Dall'altra parte asseriva: «Su ogni faccia Kolyma ha inciso le sue parole, ha lasciato la sua impronta, ha scavato altre rughe, ha impresso un marchio eterno, un marchio indelebile, un marchio incancellabile». E lui, «atterrito dalla terribile forza dell'uomo: il desiderio e la capacità di dimenticare», aveva un timo¬ re ossessivo di essere colpito dall'amnesia, dalla lenta sparizione di quel che aveva vissuto. Quanta felicità nelle sue parole: «Volevo essere solo, non avevo paura dei ricordi». Lui, un figlio di pope ma un ateo convinto e inflessibile, non cercava la consolazione nella fede, ma affermava con assoluta onestà, che se si considera il campo un esame morale dell'uo- mo, la quasi totalità dei prigionieri non lo aveva passato; ma nell'infima percentuale dei non corrotti e depravati, la maggioranza era formata dai credenti. Aveva ragione di temere per il suo caldo posticino nell'ospizio per i vecchi. Un giorno venne a trovarlo un amico. Shalamov, che componeva anche poesie, fu tentato di far ascoltare i suoi ultimi versi. L'amico aveva una straordinaria memoria e tornato a casa decise di fissarli sulla carta. Non si sa come le poesie di Shalamov giunsero a Parigi e furono pubblicate nella nota rivista russa Vestnik. Le autorità volerò subito fargliela pagare, trasferendolo nell'istituto psichiatrico. Scrissi «L'ultimo racconto di Kolyma», dandogli il titolo di uno dei racconti di Shalamov, nell'aprile 1982, tre mesi dopo la morte dello scrittore. Era un tentativo di immaginare la morte di Shalamov sulla base di scarse notizie pervenute da Mosca. Tutto sommato, un tentativo assai riuscito, modellato su Cherry-brandy, il racconto immaginario di Shalamov sulla morte del grande poeta Osip Mandel'stam nel campo di transito di Vladivostok nel 1938. Solo nel 1988 ebbi occasione di leggere il rapporto della dottoressa Zacharova di Mosca, amica di Shalamov, testimone oculare della sua morte. Dall'ospizio per i vecchi Shalamov fu di forza - malgrado le sue proteste - trasferito nell'«ospedale per psicocronici». Durante il trasporto si buscò una polmonite, mortale alla sua età. Morì in una camera per sei malati; a fianco di lui era ricoverato, in uno stato demenziale, un ex pubblico ministero di Mosca, il quale nel momento della morte di Shalamov stava mangiando i propri escrementi. Sul vetro della macchina che portò la salma dello scrittore al cimitero l'autista teneva incollato il ritratto di Stalin. Gustaw Herling Solzenicyn gli chiese di collaborare ad «Arcipelago Gulag» E lui rifiutò Gustaw Herling; accanto, l'immagine di un gulag: i campi sovietici fanno da scenario ai racconti di Shalamov

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