«Miserabile Castiglia, ti assolvo»

«Miserabile Castiglia, ti assolvo» * «Miserabile Castiglia, ti assolvo» * Il Messico è povero? Non accusiamo Filippo II LO SCRITTORE CARLOS FUENTES Cm SEN JERONIMO (Messico) E' qualcosa che si sta estinguendo in America Latina: i pretesti per giustificare la povertà. Né la razza, né il clima, né la latitudine, né l'etnia valgono a spiegare l'esistenza di duecento milioni di poveri. La miseria ha smesso di essere un destino religioso, rassegnato ma felice, preferibile alla ricchezza che, come ricordano il cammello e la cruna dell'ago, vieta l'ingresso nel regno dei cieli. Sempre meno convincente risulta il pretesto coloniale. Anche il Canada, gli Usa e l'Australia sono stati colonie, e adesso sono nazioni ricche. E colonie sono stati pure i Paesi africani, che invece continuano a essere poveri. In America Latina la colpa è della Spagna? Della «miserabile Castiglia» di Antonio Machado? Può darsi. Però a duecento anni dall'indipendenza i Paesi latinoamericani non possono attribuire la loro miseria alla Controriforma. E' probabile che molti dei nostri mali risalgano a Filippo II. Anzi è un fatto certo. Ma è remoto. L'America Latina è povera perché non ha sviluppo, o non ha sviluppo perché è povera? Causa ed effetto si confondono, contribuendo a quell'oscillazione costante, individuata da German Arciniegas, fra libertà e timore, fra anarchia e dittatura. Orfani della Ragione e del Progresso, noi latino-americani cerchiamo avidamente teologie che ci diano fede, se non ragione, e sicurezza, se non progresso. Nel 1806, durante il suo viaggio in Messico, lo scienziato tedesco Alexander von Humbolt definì il vicereame della Nuova Spagna «il Paese della disuguaglianza». Avrebbe potuto estendere il giudizio a tutta l'America Latina. E' la disuguaglianza la grande macchia della storia latinoamericana. L'indipendenza si ò lasciata sfuggire l'occasione di combinare libertà e uguaglian- za: abbiamo ottenuto la prima; abbiamo ripudiato la seconda. Le élites creole che conquistarono l'indipendenza non lottarono per dividerne i frutti con i disprezzati «pardos» (colorati, ndr). Da allora, i nostri sforzi per raggiungere la ricchezza sono stati frustrati, invariabilmente, dall'incapacità di promuovere l'uguaglianza. Negli ultimi vent'anni abbiamo raddoppiato la popolazione, però la metà di essa, duecento milioni, vive in povertà e un numero identico di abitanti ha meno di diciotto anni: siamo un continente di bambini e di adolescenti. Tutti i latinoamericani che cercheranno lavoro nell'anno 2000 sono già nati, e molti si ammassano in quello che si chiamano «ciudad perdida» in Messico, «poblacion cayampa» in Cile, «villa miseria» in Argentina, «rancho» a Caracas, «favela» a Rio de Janeiro. In America Latina tanto gli Stati nazionali quanto i settori produttivi sono cresciuti considerevolmente a partire dalla prima guerra mondiale. Ma non sono cresciuti l'accesso al credito, l'assistenza tecnica, l'investimento nel capitale umano. Sono mancate le iniziative per aumentare la produttività dei poveri. E' mancata, inoltre, una chiara volontà di distinguere e rispettare le funzioni proprie del settore pubblico e di quello privato, dando a entrambi contenuto sociale e assicurando che le strategie di risparmio, investimento ed esportazione si combinassero con correttivi sociali. Questi ultimi, durante gli anni della guerra fredda, furono confusi con la politica del comunismo sovietico, e demonizzati in conseguenza. La società esigeva riforme. Il potere politico ed economico le ostacolava. Le dottrine della «sicurezza continentale» paralizzavano le molte iniziative di cambiamento che avrebbero potuto portare a maggiore uguaglianza, migliore distribuzione dei redditi, un grado superiore di giustizia. Abbiamo perduto quarantanni di sterilità bipolare, culminata nel decennio Ottanta con una crisi economica che ha ridotto drasticamente il potere d'acquisto, riportato i salari reali al livello del 1960, aumentato la disoccupazione, la malnutrizione e la mortalità infantile, ridotto i consumi e i servizi sociali e generalizzato la povertà. Tutto ciò non e stato solo effet¬ to della crisi finanziaria. E' stata la conseguenza del rinvio di riforme indispensabili. Gli Stati nazionali latinoamericani, sotto il peso dello domande insoddisfatte della classe operaia, dei contadini, degli imprenditori, degli intellettuali, dei militari e dei creditori stranieri, hanno dovuto cedere, in molti casi, dapprima alle dittature, poi alle necessità delle purghe macroeconomiche, e solo alla fine alla consa¬ crazione democratica. In queste trasformazioni, abbiamo appreso che lo sviluppo economico, di per sé, non genera giustizia né elimina la povertà, e che la soluzione dei problemi macrocconomici - frenare l'inflazione, equilibrare la bilancia dei pagamenti, eliminare le barriere commerciali, accrescere le riserve di valuta estera - non intacca la povertà, e che tutta la teoria della crescita non vale se non ha per obietti- vo il destinatario reale dell'economia: la persona umana. La sua famiglia. La sua cultura. Dobbiamo reimparare, come dice il documento redatto por la Conferenza di Copenaghen dalla Commissione dell'America Latina e dei Caraibi (di cui questo scritto rappresenta l'introduzione, ndr), che «le politiche sociali sono un'investimento ad alta redditività economica». E al tempo stesso sono una precondizione della de- mocrazia: un ordine di libertà non si può reggere su fragili fondamenta di miseria. Meglio di chiunque altro lo ha detto il vicepremier svedese Pierre Schori: «Quanta povertà può tollerare la democrazia, quanto sottosviluppo può sopportare la sicurezza globale?». E il problema non e solo del Terzo Mondo, come si afferma alla Conferenza per lo sviluppo sociale. Scopriamo, dopo la guerra fredda, che la fine del comunismo a Est dell'Elba non assicura il trionfo della giustizia a Ovest di quel fiume, né a Nord del Rio Grande. La questione sociale, costantemente differita, ò ora al primo piano dell'agenda politica. Scopriamo l'universalità dell'agenda sociale: crimine, violenza, droga, mancanza di assistenza sanitaria, mancanza di istruzione, problemi delle donne, dell'infanzia, della terza età, epidemie incontrollabili, demografia e ambiente. La crisi della civilizzazione urbana colpisce in pari misura Bogotà, Boston e Birmingham. Solo che negli Stati Uniti e in Europa occidentale la povertà è minoritaria e la ricchezza maggioritaria. In America Latina è il contrario. Esiste, certo, un Terzo Mondo dentro al Primo c un Primo Mondo all'interno del Terzo. Però mal comune non ò mezzo gaudio. Primo e Terzo Mondo sono uniti dall'integrazione economica globale, dalla diffusione dell'informazione e dalle crescenti correnti migratorie da Est verso Ovest e (soprattutto) da Sud verso Nord. Entriamo in un universo co-rcsponsabile. Ne saremo all'altezza? Oggi possiamo apprezzare il valore delle parole del leader laborista Clement Attico: «Non sopravviveremo se creeremo un paradiso all'interno delle nostre frontiere mentre tolleriamo un inferno al di fuori di esse». «Siamo due nazioni», disse Disraeli dcll'Inghiltera divisa dalle ingiustizie della rivoluzione industriale. Ogni nazione latinoamericana soffre allo stesso modo un doloroso dualismo fra coloro che hanno molto e coloro che hanno poco o niente. Il mio Paese, il Messico, ò al quarto posto nel mondo per numero di multimiliardari, dopo gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone, ma davanti alla Francia, all'Inghilterra e all'Italia. In Messico ci sono ventiquattro individui che posseggono più denaro dei venticinque milioni di cittadini più poveri. Non possono esserci né economia né politica sane con disparità del genere. A livello territoriale, la disuguaglianza in Messico potrebbe essere descritta come la frattura fra un Nord relativamente prospero e un Sud abissalmente in ritardo. Siamo due nazioni. Il Brasile si definisce Belindia, parte Belgio c parte India. Ma abbiamo anche un Perùdesh, un Haitistan e soprattutto un Mexamerica, la frontiera fra Messico c Stati Uniti, un territorio di tutti e di nessuno dove mondo industrializzato o mondo in via di sviluppo stanno faccia a faccia, e talvolta si voltano le spalle. Possiamo cambiare questa perniciosa situazione? Soltanto so, a livello nazionale, diamo la priorità all'istruzione come arma per combattere la povertà. Senza di ciò, non riusciremo mai a sviluppare il nostro vasto potenzialo umano, a sua volta indispensabile per sfruttare le nostre risorse naturali. Senza un adeguato livello di istruzione in tutti gli strati della società, non avremo né scienza né tecnologia e perciò ci faremo sfuggire la rivoluzione informatica: nessuna economia moderna può permettersi di arrancare con il fardello del 40 per cento di analfabetismo. Ma soprattutto, senza istruzione non riusciremo a portare le nostre deboli istituzioni politiche od economiche al livello della nostra creatività. L'istruzione instaura quell'accordo, che finora è mancato, fra società, economia e politica. Senza istruzione non creeremo nemmeno il necessario spirito di comunità all'interno di ogni singolo Paese latinoamericano: comunità come compromesso, non come fatalità. Carlos Fuentes Copyright «La JornadaWorld Media Network» e per l'Italia «La Stampa» Il nostro male è la disuguaglianza fra straricchi e morti di fame Un paradosso Quanto a miliardari siamo al quarto posto nel mondo Un'immagine del Messico, Paese dove (come in tutti gli altri dell'America Latina) sono visibili gli estremi della ricchezza e della miseria

Persone citate: Alexander Von Humbolt, Antonio Machado, Carlos Fuentes, Castiglia, Clement Attico, Disraeli, German Arciniegas, Pierre Schori, Primo Mondo