La mafia punisce Buscefta

Ucciso un pregiudicato I E' stato colpito ieri sera dai killer mentre usciva in auto dalla sua fabbrica La mafia punisce Buscefta // nipote del superpentito ucciso in un agguato a Palermo MINACCIA ALLO STATO sangue tradisce la pervicace volontà di tappare la bocca, di stornare un pericolo sempre vivo? Il caso del carabiniere suicida, per quanto diverso, non è meno inquietante. Nella sua lettera di addio, ha lasciato intendere di non sopportare il peso delle accuse lanciate contro di lui dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, in una trasmissione televisiva. Nel programma di Michele Santoro che è abituato, come sappiamo, a non andare giù leggero. Accuse gravi, non solo perché non è stato consentito il diritto di replica, ma per la forza schiacciante del mezzo televisivo, che le divulga sconsideratamente in milioni di case, per la presunzione di immergere impunemente le mani - in un'ora di spettacolo nel viscidume del fenomeno mafioso. Ma una semplice e provvisoria messa a fuoco, riesce a darci un'idea del labirinto siciliano. Ad esempio, il carabiniere suicida era stato due volte in America a sollecitare le confidenze del boss Badalamenti: quello che potrebbe incastrare o assolvere Giulio Andreotti sul suo presunto incontro del 1979 con la Cupola mafiosa. Ci era andato lui perché Terrasini è a due passi da Cinisi, dove abitava Badalamenti, e i due potevano dirsi compaesani. Ad esempio, il cognato di Lombardo, quel maresciallo Canale che ha pronunciato in chiesa il suo elogio funebre, è il teste d'accusa nel processo Contrada. E viene a trovarsi al centro di un crudele contrappasso. Contrada infatti è un poliziotto accusato anche lui, come Lombardo, di collusioni con la mafia. Potenza degli intrecci e delle suggestioni. Nell'immediatezza di quel gesto disperato è stato unanime il cordoglio delle forze politiche, dei movimenti espressi dalla società civile, Leoluca Orlando si è trovato solo, alle corde. Ma è bastato un giorno perché si aprisse il gioco impudico delle appropriazioni e strumentalizzazioni. Non è parso vero agli uomini della destra ricordarsi che Lombardo era stato «calunniato» da un sindaco progressista, in una trasmissione di parte. E giù bordate contro chi attenta alle istituzioni e all'Arma fedelissima, al suo tributo di sangue. Mentre la sinistra resipisccnte ha creduto bene di fare quadrato intorno a Orlando, difendendone l'assoluta integrità. Chi tocca gli uomini dell'antimafia diventa ipso facto complice della mafia. Dopo tanto abuso della parola, si poteva sperare che un po' di silenzio lasciasse spazio allo smarrimento, che prevalesse, insieme alla riflessione e all'attesa delle necessarie verifiche, il turbamento riservato dagli italiani al nuovo ciclo della «Piovra», alla memoria del commissario Michele Placido, allo sgomento del magistrato Patricia Millardet, ai nuovi morti ammazzati per «fìnta»... La cronaca vera è così intricata che non ha nulla da invidiare al serial televisivo e dovrebbe indurre decentemente al controllo delle emozioni e dei partiti presi. Il maresciallo Lombardo, per il bene e per il male (valga come ipotesi disperante) appartiene a tutti, non disputiamoci i suoi brandelli. Come appartengono a tutti i «penti» giustiziati sulle strade siciliane. Non regaliamo, per carità di patria, per un superstite rispetto di noi stessi, un'altra vittoria alla mafia. Lorenzo Mondo PALERMO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE La mafia uccide, nel centro di Palermo, Domenico Buscetta, nipote del grande pentito. E Tommaso Buscetta proprio in questi giorni è in Italia. Ieri era a Roma, appena giunta la notizia del delitto è stato trasferito in una località segreta. Il nipote è stato sorpreso davanti alla sua fabbrica orafa poco dopo le 19. Giovedì il bersaglio era stato l'altro pentito di gran nome, Totuccio Contomo: uccisero Marcello Grado, figlio del suo più caro cugino, Gaetano. E' sotto gli occhi di tutti, a questo punto, il progetto dei latitanti di Cosa Nostra che, catturato Totò Riina ormai subissato di ergastoli (cinque), continuano a essere braccati. Sono Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Pietro Aglieri, quel che è rimasto della «cupola» decapitata da arresti e processi. Si vuole a ogni costo far capire ai pentiti - ormai oltre 800 che corrono rischi mortali, malgrado la protezione che li avvolge. E che, soprattutto, possono essere sterminati in qualunque momento i loro parenti e amici. I boss, con le loro vendette trasversali, di pentiti ne hanno colpiti parecchi e lanciano nuovi messaggi di guerra. Domenico Buscetta, 45 anni, è stato crivellato di proiettili mentre era sulla sua Audi all'angolo tra via Scobar e viale Regione Siciliana, punti cruciali nella toponomastica mafiosa palermitana. Nell'82, in via Scobar, furono assassinati il capitano dei carabinieri Mario D'Aleo e i due militari che lo scortavano. Il 15 gennaio '93 in viale Regione Siciliana, all'altezza del motel Forte Agip, i carabinieri catturarono Rii- na, ponendo fine a 23 anni di latitanza. Domenico Buscetta è spirato poco dopo il ricovero in ospedale. I due killer hanno sparato da una moto e sono fuggiti senza lasciar tracce. Poche le testimonianze, la strada era nella semioscurità. Un destino tragico quello della vittima, forse segnato già la sera dell'antivigilia di Capodanno '82 quando 4 killer irruppero nella vetreria di famiglia, in viale delle Alpi, uccidendo con una pioggia di pallottole il padre Vincenzo e il fratello Benedetto. Tommaso Buscetta era già in Brasile. Qui, in una fazenda, pensava in grande e accarezzava l'ipotesi di un golpe italiano, finanziato con i narcodollari dei cugini americani di Cosa Nostra. Caddero, uno dopo l'altro, parenti e amici di «don Masino», condannati a morte dal clan vincente dei corleonesi. Il primo delitto per punire Bu¬ scetta fu commesso a Torino l'8 novembre '81 : vittima Mario Cavallaro, fratello della sua prima moglie, Domenica. Furono fatti poi scomparire, con la «lupara bianca», i due figli maggiori che il pentito aveva avuto dalla donna prima di lasciarla. La nuova incursione dei killer mafiosi ieri sera ha avuto certamente un altro significato: la volontà di dimostrare che, se lo vogliono, i clan sfidano lo Stato anche nei momenti di sua massima determinazione. Proprio ieri a Palermo c'era stata un'eccezionale mobilitazione con la contemporanea presenza di molti investigatori antimafia impegnati in un vertice in prefettura. C'erano, col sottosegretario agli Interni, Rossi, il procuratore nazionale Siclari, il comandante generale dei carabinieri Federici, il capo della polizia Masone col vice De Gennaro, e tanti altri. Fu proprio De Gennaro, nell'84, a scortare Buscetta - dopo la sua resa - da Rio de Janeiro in Italia. E fu allora che Giovanni Falcone cominciò a raccogliere le chilometriche e più che scottanti dichiarazioni di Buscetta. Chi avrebbe immaginato che la risposta alle ennesime rassicurazioni fornite ieri dallo Stato alla gente, preoccupata ed esasperata dagli incessanti delitti di mafia, sarebbe giunta in giornata stessa? Sul luogo dell'agguato, gli investigatori hanno convenuto sul fatto che evidentemente «Domingo» (lo chiamavano così amici e parenti) Buscetta era uno dei condannati a morte «di riserva», uno di quelli perennemente nel mirino che è possibile uccidere in qualunque momento. E così è stato. Quando la vittima ha lasciato la sua azienda - la «Estemed» - i killer non gli hanno concesso scampo. Nel lasciare la questura il procuratore aggiunto della Repubblica, Guido Lo Forte, ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che la mafia abbia iniziato una vera e propria offensiva contro i pentiti, e che ora bisogna alzare la guardia. Il magistrato ha aggiunto: «Bisogna evitare le facili ironie sui pentiti», con una chiara allusione alla difesa di Giulio Andreotti del quale lui è uno dei principali accusatori. Il sostituto procuratore Roberto Scarpinato ha commentato: «Bisogna fermare questa macchina di morte che si è messa in moto con una violenza impressionante. E bisogna anche capire qual è il suo obiettivo finale, al di là dei bersagli parziali». Scarpinato ha ammesso che ormai è in atto una vera sfida di Cosa Nostra, e che «il centro di Palermo è stato trasformato in una sorta di Far West». Antonio Ravìdà I