«Se fossi stato Tex Willer—»

Il processo a Bonelli, re dei fumetti: quell'ufficiale gridava e mi buttava all'aria i cassetti LE MAZZETTE ALLA FINANZA Il processo a Bonelli, re dei fumetti: quell'ufficiale gridava e mi buttava all'aria i cassetti «Se fossi stato Tex Willer—» L'editore: ho pagato perché avevo paura CBRESCIA ORNA del demonio!». Che brutta storia (di mazzette) quella di Sergio Bonelli, editore e papà di «Tex Willer», adesso qui come un imputato qualunque per aver dato 300 milioni a un finanziere corrotto: «malediz...». Quando si siede davanti al tribunale di Brescia quasi si scusa l'imputato Bonelli, tutto diverso dal suo eroe tutto muscoli e avventure. Dice: «Se fossi stalo Tex Willer avrei avuto più coraggio. Invece non ero preparato e ho accettato di pagare». Oddio, se fosse stato davvero Tex Willer magari non sarebbe finita così: accuse, interrogatori e adesso il processo. Una notte in guardina, forse. O una ramanzina severa dallo sceriffo. Più facile risolvere tutto con quattro cazzotti. Ma quelle sono storie a fumetti. E qui a Brescia dove il processo contro le Fiamme Gialle corrotte macina udienze su udienze, si fa sul serio. Con Bonelli imbarazzato, che si torce le mani, confessa e spiega mentre manda giù bicchieri d'acqua quasi a voler scacciare l'amarezza di quella volta. Racconta, quei minuti terribili, l'editore. Ricorda l'arrivo del lenente Stolfo in azienda, le parole grosse, le minacce. E quei 300 milioni che vanno ai finanzieri «per accelerare la verifica, anche se non c'erano irregolarità nei bilanci», conferma il commercialista di Tex, Carlo Bozzali. Ricorda, Sergio Bonelli: «Quel giorno (maggio '93, ndr) entrò in ufficio la segretaria. Mi stava dicendo che c'era la Guardia di finanza, quando nell'ufficio irruppe il tenente Stolfo che mi mostrò il tesserino e mi disse che dovevano fare una verifica fiscale». Mancano gli indiani (cattivi), la prateria, le cavalcate furiose, ma la scena che adesso dipinge Bonelli potrebbe stare benissimo in uno dei suoi fumetti, primo numero '55, e adesso 50 miliardi di fatturato, 40 dipendenti e 180 collaboratori. Dice, l'editore: «Sono stati i peggiori momenti della mia vita. Stolfo aveva un tono autoritario e duro. Urlava e mi apriva i cassetti della scrivania rovesciando tutto a terra. Mi vergognavo perché dai cassetti uscivano vecchie cartoline, caramelle rimaste lì da chissà quanti anni, altri piccoli oggetti personali e i fumetti di Zagor». Un clima di terrore, racconta Bonelli: «Ero impietrito da questo clima da sbarco in Normandia che proprio non capivo. Scusate il riferimento ma ho bisogno di immagini, per raccontare». E alla fine attraverso il suo commercialista Sergio Bonelli decide di pagare per far finire la «tortura». Paga intimorito, racconta ai giudici del tribunale di Brescia. Paga quasi senza sapere, aggiunge: «Vedete, io faccio i fumetti e fino a 10 anni fa la contabilità la teneva ancora mia mamma. Poi sono arrivati i computer. Ma io non ci capisco nulla, non distinguo una macchina stampatrice da un trattore...». Di tutt'altra pasta l'imputato che dopo l'editore si è seduto sulla poltrona davanti ai giudici del tribunale. Fabrizio Du Chene De Vere della Ipg spa nega tutto. Nega di aver pagato pure lui 300 milioni per «addolcire» la verifica fiscale nella sua azienda, nega di aver incontralo da solo il maresciallo Nanocchio, nega - soprattutto - di aver dato la mazzetta al tenente Stolfo. «Sono accuse assolutamente false», dice con sicurezza l'imprenditore, uno dei tanti finiti nei guai insieme a ufficiali e sottufficiali corrotti delle Fiamme Gialle. Una sola cosa conferma. Le impressioni date da altri imprenditori sul carattere del tenente Stolfo, che definisce: «E' un carattere sanguigno tutt'altro che affettato nei modi. Chi lo ha conosciuto non lo dimentica più». [f. poi.] Una scena da un vecchio «Tex» Così il ranger punisce chi cerca il denaro facile

Luoghi citati: Brescia, Normandia