Nella Selva che ha inghiottito i Maya

Nella Selva the ha inghiottito i Maya VIAGGIO NEL VULCANO DELLA CRISI Per i «federales» messicani impossibile caccia all'uomo dentro l'inferno verde di Lacandona Nella Selva the ha inghiottito i Maya Chiapas, gli Zapatisti osservano dal buio XJIJ Xj Li SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS A «Selva» ti inghiotte all'improvviso. Un istante prima stavi guardando alla tv di un caffè la notizia dell'arresto per omicidio del fratello dell'ex presidente Salinas e prelevando qualche pesos con la carta di credito a un Bancomat internazionale, in un paesuccio chiamato Las Margaritas. Un attimo dopo, un posto di blocco militare e una curva più tardi, l'asfalto finisce, la tv tace, i banani esplodono in mezzo ai pini, l'ombra della foresta ti avvolge e il silenzio ti guarda dal buio, con gli occhi dei bambini indios invisibili che seguono la macchina dal bosco, incerti sempre se scappare via o chiederti una cicca americana. Non c'è tempo per cambiare canale. Qui sull'altopiano del Chiapas, nel «paradiso perduto» degli ultimi maya, storia e preistoria, Bancomat e tarantole, distano gli uni dagli altri come un paio di fermate del tram. Scendo qui, grazie. Sono arrivato al capolinea del mio mondo. Laggiù, oltre il capolinea della colonizzazione bianca, dove chiudono i Bancomat, e apre la «Selva», comincia ufficialmente la zona di guerra fra i «federales» dell'esercito messicano e i guerriglieri dell'armata zapatista, in lotta fra loro da 14 mesi. Comincia un pianeta che nessuno di noi europei può illudersi mai di capire davvero. La «Selva di Lacandona», l'antico regno dei maya dove ancora sopravvivono soltanto 300 discendenti diretti e puri di quella razza distrutta fra 100 mila indios di 100 diverse tribù, è un luogo dove non ci si batte per un Dio, per un partito, per il potere politico e mafioso come in Russia, per il nazionalismo come in Vietnam, ma per le pillole contro la diarrea cronica che uccide i bambini. E' una foresta grande come la Svizzera, dove ancora vige il «derecho de la noche», il diritto del latifondista a possedere qualunque donna egli voglia sulle sue terre. E' un mondo nel quale fino a ieri, ma forse anche oggi, i «caciques», i boss dei villaggi, si spostavano tra valli e monti con il cavallo e un indio tirato dietro alla corda, per cavalcare l'indio nel caso il cavallo si impuntasse. Un mondo nel quale ogni ribellione sembra, ed è, più che una sollevazione, un sollievo. Ero venuto anch'io, come le centinaia di reporter, turisti della guerra, professionisti della solidarietà internazionale, volontari e adolescenti di mezza età intontiti dal poch, il terrificante liquore di mais distillato dagli indios, per vedere la guerra fra i soldati regolari e gli indios. Per assistere, fra Far West e «Revolución», all'ennesimo, quasi anacronistico, ma mollo telegenico sussulto di ribellione «guevarista» completo di passamontagna stile «PotOp» Anni 70. Quel che riporto a casa invece, dopo ore di viaggio sotto il sole tropicale e sotto le gelide notti alpine di altopiani dove la Valle d'Aosta s'incrocia coi Caraibi, è la constatazione deludente, e insieme incomparabilmente più dolorosa, di una guerra immaginaria e di un conflitto reale, che non conoscerà armistizi né paci nel futuro prossimo: il conflitto fra i conquistatori e gli spodestati, fra chi ha molto e chi non ha nulla, fra chi ha la pelle chiara e chi la pelle color cuoio. E «poiché discende da Cam, il figlio maledetto di Noè», come scriveva un volantino dei «ganaderos», degli allevatori ricchi distribuito domenica scorsa davanti alla cattedrale di San Cristóbal mentre il vescovo diceva messa, «è condannato da Dio ad appartenere per l'eternità alla razza maledetta degli indios». E poi dicono che il vescovo è «rosso». Raggiungere la «Selva», come qui tutti la chiamano, con rispetto superstizioso, non è difficile, se le sospensioni reggono alle mulattiere divorate dalla giungla sempre più forte degli uomini. Dalla capitale degli «Altos», degli Altopiani, quella San Cristóbal intitolata al primo vescovo Bartolomé de Las Casas, compagno di viaggio di Colombo, che si batteva perché al posto degli indios venissero usati come schiavi gli africani, quelli sì, non «umani», si imbocca la mitica Carretera Pan-Americana, l'autostrada che collega l'Alaska alle Ande. Si cercano di evitare le pecore, vacche, galline, autisti «borracho», ubriachi fradici, e contadini che la percorrono in discesa a bordo di carrettini a ruote piccolissimi, simili a equipaggi di «bob a due» stradali con il sombrero, e la si lascia a Las Margaritas, l'ultimo avamposto dei Bancomat. Dopo la prima scritta su muro che grida Viva Marcos! Viva los Zapatistas!, si affronta il posto di blocco militare sotto l'occhio preoccupante del cannoncino a tiro rapido di una «tanqueta», di un autoblindo, e si è ufficialmente in guerra. Soltanto che la guerra non c'è, e non c'è mai stata, se per guerra s'intende lo scontro fra gruppi di armati opposti. Dopo l'assalto di Marcos e degli zapatisti che occuparono per qualche giorno San] Cristóbal il 10 gennaio '94, concedendo interviste a tutte le tv americane e a tutti i giornali di sinistra del mondo prima di andarsene, dopo la tregua mediata dal vescovo Samuel Ruiz che assegnò di fatto agli zapatisti l'autogoverno della «Selva» e dei suoi 100 villaggi, la controffensiva scatenata a tradimento del governo Zedillo, il 9 febbraio scorso, non ha mai incontrato alcuna resistenza militare. La direttrice principale dell'operazione, la mulattiera spacca-sospensioni che in 80 chilometri e 5 ore di tortura conduce da Las Margaritas, alla «capitale» del governo zapatista, un villaggio chiamato Guadalupe Tepeyac, non ha alcuna traccia di combattimento. Gli unici segni visibili dello scontro sono i magnifici tronchi di pino (la «Selva» contiene 75 delle 83 speci di pini classificate dai botanici nel mondo) segati in fretta e furia dai guerriglieri in ritirata e buttati attraverso la mulattiera per rallentare l'avanzata delle Humvee, le gippone americane, e dei bellissimi camion Mercedes Benz dei «federales». I soli vincitori sicuri di tutti le rivoluzioni sono sempre i venditori di armi e camion. Si racconta che gli elicotteri tirassero razzi e mitragliassero la foresta dall'alto, ed è probabile che sia stato così, «Vietnam Style». Ma se lo hanno fatto, lo hanno fatto per terrorizzare più che per colpire, perché mitragliare la giungla per colpire manipoli di guerriglieri a piedi «è come pisciar nell'Oceano per ammazzare un pesce», mi dice con linguaggio spartano il colonnello che comanda la piazza di Las Margaritas. Non ci sono corpi riconosciuti di zapatistas uccisi. Non ci sono leader importanti dell'armata guerrigliera catturati. Non ci sono stati ritrovamenti di depositi di munizioni per gli Ak47, i soliti Kalashnikov russi che da trent'anni armano tutte le ribellioni del mondo, e non è difficile capire perché. In una foresta vergine grande come una piccola nazione europea, tre o quattromila fra uomini e donne - tanti sono gli zapatistas - non sono facili da scovare. In lutto, i 14 mesi di «guerra» hanno fatto finora, secondo i calcoli più pessimistici, 145 morti per arma da fuoco. Contando anche i «campesinos» che si erano illusi di occupare la terra dei «coletos», dei signori che portano il colletto, sotto le bandiere color caffè degli zapatisti e sono stati ammazzati dalla polizia e dalle «guardias blancas», i picciotti dei latifondisti, al ritorno dei militari. Arrivo nella «Hanoi» zapatista, la minuscola capitale dell'effimero governo zapatista, Guadalupe Tepeyac, e nell'estremo villaggio abitato e un tempo controllato dai «rebeldes», prima della «Selva» profonda, La Realidad, e non ci sono segni di battaglia, di colpi d'arma pesante. In parte, i militari hanno furiosamente ridipinto tut¬ to quel che potevano ridipingere, con quella inutile efficienza di cui sarebbe meglio dar prova in tempo di pace. 11 magnifico ospedale costruito a Guadalupe due anni or sono per pura propaganda elettorale e per far circolare «mordidas», bocconcini, come qui si chiamano le mazzetto, è vuoto, non ha un solo malato, in una terra dove tutti sono malati di qualcosa. Il medico è stato portato qui, per la prima volta, in elicottero tre giór- ni or sono, mi confessa lui stesso, per far «scena» con i giornalisti. Le attrezzature mediche, le macchine per i raggi X, furono rimosse due ore dopo l'inaugurazione fatta da Salinas nel 1993. Un perfetto villaggio Potemkin: non funzionava quando c'erano i pazienti e funziona oggi, che i pazienti non ci sono più. Villaggio dopo villaggio, sono tutti così, deserti, intatti, i panni ancora stesi come li avevano lasciati le donne il 10 febbraio scorso, come se una bomba al neutrone in versione terzomondista avesse vaporizzalo gli uomini lasciando intatte le cose. Sembra una delusione ma in verità, come si comprende con un sussulto, il vero, agghiacciante segno della guerra e proprio questo: è il nulla. Quel silenzio perfetto che avvolge i «pueblos», rotto soltanto dal ronzio di un elicottero alto o dal passaggio di un gippone, è la piccola Hiroshima pre-colombiana della Selva Maya. Le rovine di una civilità contadina e primitiva sono contadine e primitive: sono i tre cavalli emaciati che vedo annusare la polvere di Guadalupe Tepeyac, sono i maialetti neri e pelosi che corrono da una casetta all'altra di La Realidad, sono i cani famelici e disperati, le galline ormai libere, il pavone reale che inutilmente spiega la sua coda stupenda, gli stracci appesi ad asciugare, le pentole di fagioli rifritti che gli indios hanno abbandonato all'arrivo dell'esercito e sono ancora li, a marcire. Gli indios che stavano fuori hanno innalzato bandiere bianche, stracci sui tetti di lamiera per manifestare la loro resa all'esercito. Gli altri, quelli che stavano nella «Repubblica Zapatista», sono scappati, per istinto, per un riflesso di paura delle armi e dell'uomo bianco che 500 anni di «Conquista» e di atrocità senza nome gli hanno insegnato. Chi stava nei villaggi controllati da Marcos, chi aveva rinuncialo al poch, al liquore di mais che tiene tranquilli e storditi gli indios e che gli zapatistas avevano vietato, sa benissimo che agli occhi dei militari tutti sono zapatisti. E tutti avrebbero dovuto pagare il conto, anche i bambini, anche le vecchie, tutti come Hugo il contadino, uno dei pochi intrappolati dall'esercito, che ha ha avuto gli occhi strappati solo per la colpa di aver posseduto un fucile da caccia non denunciato. Forse 10, forse 20 mila persone sono tornate in quella «Selva» che è insieme, da sempre, il loro utero e la loro tomba. Quanto potranno resistere, «mangiando una tortilla al giorno», come racconta l'attrice messicana Ofelia Medina che ha trascorso una settimana nel bosco, nessuno può dire, ma certo non molto. Gli zapatistas, dispersi anch'essi nella «Selva», non hanno tempo, né mezzi per aiutarli e neppure la sinistra messicana è del tutto convinta che la loro sfida armata al governo e alla sua politica economica sia stata una buona idea, in quest'epoca senza più ibischi e quindi deterrenti di «escalation» mondiali. Devono muoversi continuamente, senza più aiuti né quei finanziamenti che arrivavano loro, si dice, da organizzazioni cattoliche tedesche, da ecologisti estremisti, forse da qualche «mano invisibile» di americani ansiosi di far deragliare il Nafta, il Mec nordamericano. Le rovine umane di questa guerra invisibile sono lì, appena dietro il sentiero, appena dentro alla «Selva». Quando mi avventuro di qualche metro sopra il villaggio di Realidad, piccoli fruscìi segnalano la presenza di qualcosa e dal buio emerge un bambino che mi guarda. Gli faccio vedere le mani, vuote e aperte per non spaventarlo. Lentamente porto la mano in tasca, pesco una stecca di cioccolato sciolta dalla calura del mezzogiorno, gliela butto e lui sparisce. Avrebbe bisogno di medicine, di disinfettanti intestinali, di acqua pulita, ma io ho solo sigarette e caramelle. Meglio le caramelle. Tutti i bambini degli indios fuggiti nella selva sono in preda alla dissenteria. Tutti si dividono il cibo. Vivono insieme e muoino insieme, i Maya. C'è puzza di genocidio nel bosco. Quelli che sono ancora vivi torneranno, perché ogni genocidio ha sempre i suoi superstiti e perché l'esercito, quando gli farà comodo, si ritirerà. Gli zapatisti non sono, e non sono mai stati, una minaccia reale ad altro che non fossero la finzione internazionale del miracolo economico di Salinas e l'orgoglio di generali messicani che volevano sfoggiare il nuovo equipaggiamento americano. Comprese quelle disgustose razioni da campo dette Mre (Mangiare Rifiutato dagli etiopi, le chiamavano i Marines nel Golfo) prodotte a Cincinnati, Ohio, come dicono le confezioni di plastica che trovo sparse ovunque nella selva, buttate dai militari messicani. Complete di carta igenica, salviette lavamano, caffè istantaneo, fiammiferi, zucchero, side e chewing gum e naturalmente «condones», preservativi. 1 militari si ritireranno, non so quando, non so dopo quanti bambini maya morti di dissenteria nella «Selva», soddisfatti della loro facile vittoria culminata tre giorni addietro con la distruzione di Aguascalient.es, il «Centro culturale» degli zapatistas, costruito con tronchi e panche di legno sui fianchi del monte e con il falò dei libri delle vecchie edizioni Anni 60 sovietiche e cinesi del «Che fare?» e del «Capitale». Si ritireranno, come ci stiamo ritirando noi giornalisti, ad aspettale la prossima fiammata. Torniamo alla base, alla San Cristóbal brulicante di «turisti della guerra», di italiani, andiamo al ristorante di Fabio, un piacentino che cucina la miglior pasta di tutto il Chiapas. Facci due spaghettini al dente, Fabio. Aglio, olio e rivolu- Vittorio Zucconi 3 - Fine Elicotteri e camion militari vanno su e giù ma il «nemico» è introvabile Nei villaggi deserti un silenzio irreale Tutta la popolazione è fuggita con i ribelli nel timore di rappresaglie dell'esercito Fruscio tra le fronde Spunta un bambino Prende il cioccolato e si dilegua senza una parola ] pppNei villaggi deserti un silenzio irreale Tutta la popolazione è fuggita con i rnel timore di rappresaglie dell'esercit